Cristian Sciacca 28 giugno 2013
Conviction è una miniserie TV britannica del 2004, passata un po’ sottotraccia. Grazie a Blood, la sua trasposizione su grande schermo, uscita in questi giorni in Italia, è prevedibile una sua riscoperta da parte di molti. Anche qui la sceneggiatura è firmata da Bill Gallagher, con la regia affidata a Nick Murphy (reduce dall’horror 1921 – Il mistero di Rookford). Prodotta da Sam Mendes, la pellicola, come la serie, è incentrata sulla famiglia Fairburn: Joe e Chrissie sono due fratelli poliziotti che, sull’isola di Hilbre, in Galles (mentre in TV era ambientata nel Lancashire) hanno sempre contrastato il crimine, agendo solo in nome della legge, sbattendo in galera gente come Jason Buleigh, principale sospettato dell’assassinio di una ragazza (coetanea della figlia di Joe). Accade però che la momentanea assenza di prove faccia scarcerare Jason: a quel punto, la rabbia di Joe, coadiuvato dal fratello, esplode in un incontro ravvicinato col sospettato, portando alla morte di quest’ultimo. Quel che è peggio, pochi giorni dopo, viene catturato il reale colpevole dell’assassinio: Joe e Chrissie hanno ucciso un innocente. In una notte si sono ritrovati dall’altra parte del fiume.
Il problema principale di Blood è che è un film in cui le percentuali di originalità e inventiva sono prossime allo zero. C’è moltissimo di già visto: dagli ambienti spogli e gelidi de La promessa di Sean Penn alla vittima che compare nelle visioni di Joe, espediente palesemente ripreso, con tutta la sua ridondanza, dalla figura del padre di Dexter. E inevitabilmente (basta leggere il plot) si arriva a Mystic River. Come nel capolavoro di Eastwood, qui il senso di colpa la fa da padrone. Ma anziché un senso di colpa risalente alla perdita dell’innocenza, che sgorga solo nel finale, qui siamo di fronte ad uno stato d’animo sin dall’inizio tangibile e disturbante, che oscilla tra paranoia e follia. Nonostante non portino nulla di nuovo, tuttavia Murphy e Gallagher danno vita ad un impianto solido e coerente, in cui la natura da thriller giudiziario si incontra timidamente con pesanti problematiche sociali e istituzionali: il paradosso dell’uomo di legge che deve lavare il sangue che ha versato e fare i conti coi propri demoni; il sacrificio del genitore, che smette i panni del poliziotto ed indossa quelli di padre solo nell’ultimo, inaspettatamente lucido, gesto d’amore; la giustizia sommaria, prodotto quasi sempre più delle proprie paure che delle colpe oggettive del carnefice/vittima.
Dal lato tecnico, invece, convincono quanto basta la regia senza sbavature o colpi di genio di Murphy, la fotografia dai toni freddi e la scelta di un doppio ritmo: veloce nello svolgimento dei fatti, lento nel percorso interiore dei personaggi. Un altro motivo per vedere Blood? Sicuramente le facce degli attori, e il loro dolore. È un’opera che deve moltissimo al suo cast. Dagli occhi di ghiaccio, via via più allucinati e insicuri, di Paul Bettany, all’autorità ridotta a malattia e ricordo di Brian Cox, fino alla fisicità e al pragmatismo di Mark Strong (il villain di Kick-Ass e Sherlock Holmes). E poi c’è Stephen Graham, qui co-protagonista e co-autore del misfatto: l’Al Capone di Boardwalk Empire, tipico volto della Liverpool operaia, si dimostra ancora una volta garanzia di qualità e icona contemporanea del cinema british. Blood non è affatto un film memorabile ma si poteva certamente fare peggio.