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Blood Story (Let me in)

Da Alekosoul

Blood Story (Let me in)Blood Story. Titolo abbastanza banale e assai sfuggente, per la versione cinematografica americana di Lasciami Entrare, pellicola basata sull’omonimo romanzo di John Ajvide Lindqvist. Questo nuovo adattamento per il grande schermo, che segue il primo, ad opera di Tomas Alfredson, trasporta la storia in territorio americano, sostituendo Blackeberg, la lugubre periferia di Stoccolma, con la contea di Los Alamos, New Mexico.

Questo primo cambiamento fra le due versioni può forse lasciare interdetti, non essendo magari abituati ad associare la parola Messico a neve e ghiaccio, ma è in definitiva quello più impattante. Già, perché la strada interpretativa scelta da Matt Reeves (Cloverfiedl) è piuttosto aderente e fedele al romanzo originale, e dunque, per forza di cose, anche alla pellicola svedese, la cui sceneggiatura è stata curata da Lindqvist in persona.

Blood Story, è bene chiarirlo, fondamentalmente e cronologicamente non è infatti il remake del Lasciami Entrare di Alfredson. Reeves iniziò a lavorare al progetto quando il film svedese non era ancora uscito. Dettagli temporali a parte, il confronto fra gli esiti raggiunti dai due film è inevitabile, e si basa, non solo ma soprattutto, sui due piccoli protagonisti.

Blood Story (Let me in)

La coppia Owen/Abby è sicuramente esteticamente più bella e platinata del duo Oskar/Eli, tanto da sembrare due giovani modelli CK, ma, a parte i gusti estetici, personalmente sono gli originali svedesi a vincere il confronto di comunicatività e memorabilità interpretativa, grazie a un’aderenza estrema al dettato linqvistiano. E se i due maschietti, mutatis mutandibus, offrono una performance attoriale abbastanza simile, come fisicità e intensità drammatica, la pur bellissima Chloe Moretz non regge il confronto con Lina Leandersson, che riesce a comunicare molta più umanità, sofferenza e disagio.

Blood Story (Let me in)
Eli, nel romanzo, svolge infatti la funzione di collettore di tematiche delicate e sensibili, come il bullismo, la sociopatia, la droga, l’identità di genere, la pedofilia, la prostituzione e l’omicidio, portando alla luce il lato oscuro, il marcio, che giace sotto la coltre di neve e ghiaccio di Blackeberg, e dell’animo umano. Nel film di Alfredson, pur alleggerito delle sottotrame collaterali, molto di questo era mostrato attraverso un uso accorto e puntuale dei dialoghi e delle inquadrature ambientali, che fotografavano efficacemente l’atmosfera di degrado urbano e sfilacciamento sociale che si respirava negli anni ’80.

Il corrispettivo americano risulta molto meno ancorato al contesto sociale e ambientale, concentrandosi invece maggiormente sulle fasi action e sulla componente gore (senza esagerare, per non alzare il rating. Infatti anche in questa occasione la scena della vasca da bagno è risolta con le coperte). Vi sono poi due distorsioni narrative degne di nota. La prima quando viene mostrata la fotografia del “padre” di Abby (Richard Jenkins), giovane accanto a lei, che suggerisce un incontro e un legame nato in modo identico a quello con Owen, annullando di fatto la chiave di lettura pedofila. La seconda con la mancata inquadratura del sesso deturpato della bambina, che nel film svedese suggeriva qualcosa di molto importante (Eli/Elias), meglio approfondito nel libro.

Blood Story (Let me in)
In conclusione questo Blood Story, sebbene molto piacevole e godibile per tutti i newbies, non può che essere giudicato come non completamente soddisfacente, da chi conosce più approfonditamente la storia, e che forse rimarrà con l’amaro in bocca, di fronte a certe scelte narrative, e alla mancata occasione di un racconto più vasto ed affascinate. Emotivamente riduttivo.


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