Dwight è un medioman come tanti altri, non è sposato, non ha figli, Saulnier suggerisce anche che a più di quarant’anni viva ancora con i genitori, dopo la morte violenta degli stessi si è esiliato trasformando la sua macchina in una casa e vivendo di stenti fino a quando non scopre che il loro assassino è uscito di prigione. Il pensiero è immediato, addirittura meccanico, ucciderlo è l’unica cosa che può dare senso alla sua attuale e misera esistenza. Ma non si può essere killer da un giorno all’altro, e Dwight è una spugna che assorbe tutte le possibili complicazioni che la mancanza di una mente fredda comporta: l’adrenalina lo porta a non preparare piani e a fare tutto d’istinto, l’agitazione lo obbliga a errori e a rischiare grosso in moltissime occasioni, e in generale l’ingenuità, ma è l’ingenuità di una persona normale, fa sì che la sua vendetta sia un continuo sbaglio, verso se stesso e chi gli sta vicino.La bellezza di Blue Ruin sta proprio nel non gonfiare la buffa innocenza di Dwight, e il film, per quanto colmo di momenti ironici, non appare come una versione più leggera di una storia di vendetta, né una sorta di ibrido tra noir e commedia come va di moda fare nell’horror, o un qualche tipo di black humor con schizzi pulp. Anzi, qui siamo di fronte a parentesi nichiliste, squarci di violenza terremotante e lunghe sequenze di silenzio interiore che non permettono mai alla goffaggine di Dwight di prevalere, facendo scordare di cosa stia in realtà parlando Saulnier. La catastrofe che mette in moto ha conseguenze che chiunque, nella sua posizione, non è in grado di calcolare, sono troppi i sentimenti e le emozioni in gioco per essere abbastanza lucidi e perfettamente geometrici. Non è quindi più una questione di giusto o sbagliato, non ci sono dubbi che sia sbagliatosoprattutto perché questo tipo di sbaglio può scatenare reazioni ben peggiori.
L’infrazione in casa di sua sorella scampata per un pelo, le ferite subite e curate con altrettanta fortuna, le armi recuperate per enormi coincidenze sono solo alcuni dei problemi giganteschi affrontati da Dwight in seguito alle sue azioni tanto spontanee quanto incerte, ed è un miracolo che sparatorie e area d’azione rimangano entro certi limiti e non coinvolgano molto altro, ennesimo favorevole volere di un destino che sembra soccorrere Dwight solo per poi divertirsi facendogli stupidi dispetti. E per mettere in scena tanto rigore nel non-rigore vendicativo di un protagonista memorabile, Saulnier è caloroso e glaciale allo stesso tempo grazie a una narrazione che non spiega, non spiega mai, neanche con qualche sviolinata o minuscoli riassunti, ciò che sta accadendo: tutto è mostrato con una raffinatezza esemplare che trasforma il disastro di Dwight in una frattura che si allarga un poco alla volta, aggiungendo di minuto in minuto, con dialoghi deliziosi e sguardi colmi di significato, informazioni necessarie a capire da cosa sia stata creata. Bellissimo infine il supporto musicale, trattenuto ed essenziale, con quel No Regrets che parte a metà film e dona alla stramba, dolente vicenda di Dwight un amaro sapore nostalgico.