Dunque Angelo Fabbri viene assassinato con dodici coltellate a poche ore dal Capodanno 1982 e il suo delitto resta insoluto. Delitto che viene seguito qualche mese più tardi da un nuovo omicidio. La vittima è nota in città. Si chiama Francesca Alinovi, è nata a Parma il 28 gennaio 1948 ed è con la sua morte che, in città, si inizia a parlare di serialità. E di presagi.
Io non volevo morire… Se tu mi leggi, ora, e io sono morta, ricorda che io non volevo morire, ricorda che io avrei voluto essere immortale e non lasciare spoglie vicarie mortali sulla terra. Ricorda che, anche faticosamente, avrei retto il peso dei miei anni e la fatica di vivere stratta in un corpo putrido e malato. Ricorda poi che, per il fatto che mi leggi, io ti amo, come, in vita, ho amato tutti quelli che mi hanno amato e ho amato essere amata senza mai essere capace di manifestare il mio amore. Sono sentimentale, questa sera del 20 dicembre vicino a Natale, e con la febbre d’amore che riverso su dischi e fantasie di incontri inaccaduti. Faccio il mio testamento di amore e di morte perché ho sempre sentito l’amore come morte (e la morte come amore?). Non voglio morire… e non posso amare.
Queste parole sono state scritte un anno e mezzo prima del delitto e sono raccolte nel diario che la donna ha tenuto per anni fino a poche settimane prima del suo omicidio. Riportato per stralci nel libro Francesca Alinovi. 47 coltellate di Achille Melchionda (Pendragon, 2007), sembra il racconto in presa di diretta degli eventi che porteranno al 15 giugno 1983, un mercoledì, quando un vigile del fuoco i pioli di una scala a pioli per entrare in un appartamento del centro storico, in via del Riccio 7. La proprietaria, Francesca, che insegna al Dams ed è un astro nascente della critica artistica in Italia, non risponde né al telefono né alla porta da tre giorni. E le preoccupazioni di Marcello Iori, un amico della giovane donna che non ha più sue notizie, sono fondate.
Mentre in quella vigilia d’estate le radio iniziano a rimbalzare uno dei tormentoni da ombrellone, “Io ho te” di Donatella Rettore, pezzo che impazzerà da Azzurro ’83 al Festivalbar, il corpo di Francesca Alinovi è a terra, non lontano dalla porta d’ingresso di casa sua. I piedi sono rivolti all’uscio, la testa alla camera da letto e il viso è stato coperto da un paio di grossi e vivaci cuscini. Alle 18.30 di quel 15 giugno, la polizia riesce a entrare e dà inizio ai rilievi, da cui in un primo momento non esce granché. Di certo, chi l’ha assassinata non ha scassinato la porta, richiusa normalmente alle spalle di chi ha commesso il delitto, e ha agito almeno tre giorni prima, a una prima analisi della salma. Ma quando esattamente? Probabilmente domenica 12 giugno, in un orario compreso tra la metà del pomeriggio e la serata.
Intanto il medico legale conta sulla donna 47 coltellate. Molte sono superficiali e la maggior parte è più profonda di un centimetro. Dalla tipologia delle ferite, l’arma è una sola e ha infierito sul lato destro del corpo. Alcune pugnalate hanno raggiunto anche il palmo di una mano, effetto forse di un tentativo di difesa, e sulla schiena. Ma solo una è mortale: è quella inferta al collo della vittima, che ha provocato un’emorragia interna e che ha ucciso Francesca in una decina di minuti.
A una prima ricognizione si esclude la rapina. Dall’appartamento non sembra mancare nulla, a accezione di un asciugamano di piccole dimensioni, un coltello da cucina e uno specchietto. E il ritrovamento più strano gli agenti della polizia lo effettuano in bagno, dove qualcuno ha scritto sulla finestra la frase “Your’not alone, any… way”. Gli errori di grammatica sono evidenti, ma il significato è chiaro: ad ogni modo non sarai sola.
Chi l’ha assassinata? Per cercare l’autore di questo delitto, gli investigatori si concentrano sulle persone più prossime a Francesca e isolano una decina di iscritti al Dams che hanno dato vita a un gruppo informale, gli “Enfatisti”, con l’intenzione di dare vita a una nuova corrente artistica.
Tra loro c’è Francesco Ciancabilla, 23 anni, legato alla vittima da una relazione sentimentale iniziata un paio d’anni prima e trascinatasi più tra bassi che tra alti. Di lui scrive il 4 marzo 1981:
Sono innamorata di Francesco. Sono incredibilmente innamorata del sosia di me stessa, del mio sosia Gemelli-Acquario. È straordinario come avessi previsto tutto e come io stia tornando alle origini di me. Un io che è quello che ero e insieme quella che sono. Vivo la cultura sulla mia pelle e vivo come scrivo, sento come teorizzo. Ancora una volta è l’avventura di me proiettata al di fuori che rientra nel mio dentro senza saperlo. L’ombelico del mondo. Non so come è successo con Francesco, ma io ho 11 anni e vivo l’esperienza consumata che ho vissuto appunto a 11 anni [...]. Lui è come me e, incredibile a dirsi, non so che fare con me [...]. Dare e non dare, dire e non dire, esserci e non esserci; la paura di concedersi, di lasciarsi andare, la sensazione di lasciar trapelare senza troppo e… fuggire.
Interrogato il 16 e il 17 giugno a proposito dei suoi spostamenti, non mostra segni di agitazione nemmeno quando viene condotto nell’appartamento di via del Riccio. Conservando sempre la sua apparente tranquillità, Ciancabilla spiega agli investigatori di aver salutato Francesca intorno alle 19.30 di domenica 12 giugno. Lo attendeva un treno per Pescara, la sua città natale, e che era alla stazione di piazza delle Medaglie d’Oro lo può confermare un’amica. A Francesca non ha fatto nulla, dice, quando l’ha lasciata era viva, stava bene ed è solo un caso che quel pomeriggio la donna non gli abbia dato un passaggio in macchina verso la stazione.
Gli inquirenti però non gli credono. C’erano già stati episodi quanto meno burrascosi tra la coppia. Una volta Francesca era stata rincorsa da lui che impugnava un paio di forbici, un’altra le aveva fatto un occhio nero e un’altra ancora il giovane aveva spinto la loro auto sull’orlo di un burrone minacciando di lasciarsi entrambi cadere di sotto.
E poi c’erano altri aspetti. La loro difficile intimità, un’identità sessuale del ragazzi non definitiva il fatto che lui dicesse in giro di averle «dato l’anima, ma non il corpo». Racconterà la donna al suo diario il 7 giugno 1981:
Francesco, la perla dei miei sogni recenti, è omosessuale, innamorato di un ragazzino venticinquenne incontrato per caso alla Soffitta la sera della performance di Orlan, mentre io non c’ero, l’unica sera in cui non c’ero [...]. È omosessuale ed eterosessuale, finora non mi era mai capitato. Io divento sempre più asessuata. Mi dispiace per i suoi grandi occhioni gialli, per le sue grandi labbra carnose. Il pensiero di lui mi aveva reso felice per tanto mesi…
E poi c’era il problema dell’eroina: una tossicodipendenza intermittente, subdola, che minava il giovane e che Francesca aveva cercato di stroncare, senza riuscirci. Fino a quando la donna non aveva iniziato a stancarsi di quell’amante più giovane, tormentato e affascinante, che la prendeva e la lasciava e che insinuava in lei il sospetto che a interessarlo fosse più il suo peso nel mondo dell’arte che altro.
Negli ultimi mesi dalla sua vita, Francesca è stanca di quella storia. È stremata da anni di lotte, di punizioni fisiche e psicologiche, di quel giovane uomo che la tratta come una bambola da sbattere via, quando non ha voglia di lei. E scrive sul suo diario il 20 marzo 1983:
Per la prima l’ho visto come un deficiente, gli ho detto deficiente, ho pensato deficiente. Per la prima volta penso che lui sia un deficiente, squallido. L’ho visto già prima lì tra o suoi amici, numero da fiera tra poverini numeri da fiera, baracconate, pagliacciate. Lui come gli altri. Ubriaco? Ma che importa, io l’ho visto come gli altri, Già stasera le sue foto mi fanno incazzare [...]. Crollo di un mito. Crollo di un amore che mi sembra impossibile aver provato. Cieca per due anni, due anni pazza d’amore.
Francesco Ciancabilla, nel giro di qualche giorno, diventa il principale indiziato per una serie di ragioni. Francesca non avrebbe aperto a uno sconosciuto e quando qualcuno suonava lei si accertava sempre dell’identità del visitatore gettando uno sguardo dalla finestra. Inoltre nessuno aveva una copia delle chiavi di casa e dunque difficile pensare che qualcuno avesse potuto introdursi furtivamente per poi ucciderla.
Il 12 giugno 1983 Francesca Alinovi è sicuramente viva alle 17, quando riceve una telefonata. Ma alle 19.30 non si presenta alla galleria dove aveva un appuntamento. Non avverte nessuno della sua assenza, comportamento inusuale per la donna per quanto, sul momento, nessuno si allarmi più di tanto. Però non accompagna nemmeno Francesco alla stazione, come faceva di solito. Ma quando viene assassinata, Francesca è vestita come se dovesse uscire, scarpe comprese, e la datazione della morte potrebbe essere posticipata fino alle 6 del mattino successivo dato che la donna indossava anche un Rolex che si ricaricava con il movimento del polso.
Una perizia controversa, quella sull’orologio, perché è fermo quando Francesca viene ritrovata. Ma viene maneggiato male e i meccanismi si riattivano. Questo sarà un punto importante su cui premerà la difesa di Francesco Ciancabilla: come credere all’attendibilità delle verifiche effettuate se non si riesce a stabilire con certezza quanto tempo è trascorso da quando Francesca a smesso di muovere il polso? E poi, proseguono gli avvocati del giovane, perché nessuno l’ha sentita gridare nonostante le 47 coltellate? In quei giorni a Bologna fa già il tipico caldo asfissiante dell’estate emiliana e le finestre sono spalancate. Eppure niente: un urlo, un lamento, un rumore. Dall’appartamento di via del Riccio non esce alcun suono. E Ciancabilla, quando viene ufficialmente indagato per omicidio, non reca addosso alcuna traccia di sangue, neanche uno schizzo.
Tanto basterà perché il 31 gennaio 1985 il ragazzo, al termine del processo di primo grado, venga assolto per insufficienza di prova, ma la situazione si ribalta in secondo grado il 3 dicembre 1986, quando la Corte d’Assise d’Appello di Bologna lo condanna a quindici anni di carcere. Lui continua a dichiararsi innocente e a quel punto le forze dell’ordine non faranno in tempo a portarlo in carcere perché Francesco è scomparso, scappato. Solo nel 1997 sarà ritrovato dagli agenti della Digos in Spagna, dove vive dopo aver soggiornato per un po’ in Francia. Nel frattempo la condanna è diventata definitiva e l’assassino di Francesca Alinovi ha un nome, per quanto ancora oggi ci sia chi non crede fino in fondo alla colpevolezza di Francesco Ciancabilla.
Scrive a questo proposito Luigi Bernardi nel suo Macchie di Rosso – Bologna avanti e oltre il delitto Alinov (Zona Editrice, 2002):
A Bologna, per fare un buon piatto di tortellini, bisogna ammazzare tre animali diversi: un maiale per il ripieno; una gallina e un manzo per il brodo.
Sua maestà Tortellino chiede il suo tributo di sangue. Lo chiede e sa ottenerlo. Comincia dunque in macelleria una delle glorie massime di questa città. Gli animali si ammazzano con un colpo secco, micidiale. Chi ammazza gli animali impara presto come si fa. Non fosse altro per non sentire a lungo i lamenti, che prendono subito una tonalità “umana”, da far arricciare la pelle [...].Nella storia di Bologna c’è un prima e un dopo l’assassinio di Francesca Alinovi, quel delitto è la radiografia di una frattura. Poco meno di tre anni prima [...], Bologna era stata scossa da ben altra deflagrazione, l’attentato alla stazione, la strage. Ne era rimasta tramortita, aveva allentato i riflessi, smorzato gli slanci, persino i desideri. Bologna è sempre stata una città che ha voluto, e potuto, scegliersi la propria velocità, in questo consisteva il suo famoso essere diversa. Bologna era un mondo a parte: per alcuni un paradiso che non si abbandona più, per altri un inferno da spegnare ad ogni costo.
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