Bon to Rin-chan ( ぼんとリンちゃん, Bon Lin). Regia: Kobayashi Keiichi. Soggetto, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Kobayashi Keiichi; Suono: Hidaka Shigeyuki; Interpreti: Sakura Ema, Takasugi Mahiro, Togetsuan Hakushu, Higa Rino, Tsukioka Kaho, Kadomae Ari; Produttori: Harada Hiroshi, Zaizen Ken’ichirō; Durata: 91’. Uscita nelle sale giapponesi: 20 settembre 2014. Link: Sito ufficiale - Trailer
Punteggio ★★1/2
“Bon” (Sakura Ema) è una giovane appassionata di manga Bl (Boys Love, ovvero fumetti che trattano storie di amori omosessuali). Insieme al suo amico d’infanzia “Rin” (Takasugi Mahiro) parte alla volta di Tokyo per cercare un’altra amica, Miyu (Higa Rino), sospettando che il suo ragazzo la maltratti. Ad aiutarli nella ricerca, si unirà a loro “Bebi” (Togetsuan Hakushu), un otaku più maturo conosciuto in rete. L’indagine porterà a sorprese e delusioni che Bon saprà tuttavia affrontare positivamente e senza scomporsi.
Quando ci si avvicina un po’ alla cieca al film di un semi-esordiente di cui non si è vista l’unica altra opera di finzione (About the Pink Sky), senza aver prima letto nulla se non la trama, si corre il rischio che le proprie aspettative circa il contenuto del film vengano falsate dal contorno, da tutto ciò che concorre a formare la “confezione”: locandina, trama, trailer, la canzone con cui si apre il film stesso, l’aspetto dei protagonisti, il contesto cinematografico in cui l’opera si inserisce (ovvero quello dell’era dei film tratti da manga, anime e videogame), eccetera.
Da’opera che si presenta per mezzo di una locandina letteralmente divisa tra fumetto e fotografia, con i due protagonisti equipaggiati di un abbigliamento e di un atteggiamento da protagonisti di un manga (esemplare la posa del ragazzo, a metà tra quella di un super-eroe e quella di un cantante visual-kei); da un film che, stando al riassunto della trama, parla di due adolescenti, ai quali si unisce un otaku più maturo, appassionati di fumetti “Boys Love”, videogiochi, dōjinshi, cosplay e forum internet dedicati; e infine, da un film che si apre in un negozio di fumetti e con una sigla realizzata con il vocaloid; da tutto ciò, si diceva, ci si aspetterebbe una scoppiettante regia dai tratti pop e postmoderni, infarcita da suoni digitali, scritte e cornici in sovrimpressione, siparietti surreali, colori sparati a mille, abuso di grandangoli e deformazioni visive varie, e tutto quanto possa svelare e accentuare l’aura di finzione allo scopo di avvicinare il film stesso, scongiurando il realismo insito alla fotografia, all’universo di carta e pixel cui fa riferimento.
Al di là dell’effettivo risultato, sostanzialmente positivo sebbene non eclatante né particolarmente memorabile, chi scrive è rimasto piacevolmente spiazzato nel corso della visione, e quindi incuriosito fino alla fine, perché fortunatamente Bon to Rin-chan non è niente di quanto sopra evocato. Interamente girato con camera a spalla e montato in pochi lunghi piani-sequenza, il film segue con andamento sinuoso i due protagonisti, colti in media res nel loro viaggio tra i luoghi chiave della cultura otaku della capitale (fumetterie, centri commerciali, bar con cameriere cosplayer, love hotel nei quali le giovani escort si presentano in costume da maiden, il divano da cui giocare ai videogame).
Il ritmo è smorzato e affidato interamente ai dialoghi e alle interpretazioni degli attori in campo, in particolare a quella dell’interprete femminile protagonista Sakura Ema, la quale mescola elucubrazioni sul senso della vita e sulle passioni che accomunano i personaggi, a scherzi, battute e gesti stereotipati e autoreferenziali rispetto a un universo culturale solidamente definito. Ma niente è enfatizzato attraverso il montaggio o il commento sonoro (praticamente assente): tutto viene mantenuto a distanza, quasi raggelato, come per un consapevole tentativo di non lasciarsi trascinare e sovrastare dalla finzione dell’estetica pop, così da fornire uno sguardo il più possibile obiettivo e quindi capace di fare emergere le personalità dei protagonisti nascoste dietro i loro archetipi, più che di camuffarle ulteriormente.
Un connubio ossimorico, quello tra forma e contenuto, sicuramente interessante, che sembra confermare quanto è stato scritto sulla direzione intrapresa dall’opera d’esordio, e quindi la chiarezza d’intenti di un autore che proprio per questo, in futuro, potrebbe rivelarsi qualcosa di più del solito cineasta indipendente in erba. [Giacomo Calorio]