Bonelli fase due: pensare e forse disegnare

Da Martinello
La lettura del faldone rilegato è compiuta, il pacchetto di patatine svuotato, la stanza è colma di intensità come forse avrebbe voluto Gino Paoli.
Ho preso due appunti due su delle idee per visualizzare una scena, che forse eluderò perché non mi convincono niente. Questo è un buon segno perché significa che la storia mi è piaciuta.
Cosa succede adesso?
Da dove sgorga quel flusso-di-incontaminate-emozioni-che-guidano-la-mano-dell'artista-sul-foglio-pronto-a-raccogliere-nitide-le-tracce-di-eternità-che-in-quel-loco-vorrà-imprimervi-tramite-inchiostro?
Da ggiovine tutte le volte che osservavo i professionisti navigati disegnare una storia pensavo questo, chiaramente in termini diversi. Mi chiedevo : "come cazzo fanno?"
Nelle osservazioni, nei dialoghi con queste persone, con questi "maestri", forse cercavo di alimentare la mia naturale pigrizia nel non voler trovare soluzioni, ma sempre e solo rimediare scorciatoie: la strada in salita, diciamolo, ha sempre fatto schifo a tutti. "Spiegami un trucco: dimmi come si fa a fare in dieci minuti un ponte in prospettiva. Dimmi se esiste un modo per disegnare un corpo umano anatomicamente coerente già da domani mattina."
Ma se nei maestri qualcosa ci arriva ad essere utile, é il loro non rispondere mai alle nostre domande.
E allora come ci si prepara? Come si affronta il disegno di una storia a fumetti? Da dove si comincia?
Facciamo delle ipotesi: mettiamo si  tratti di un flusso di coscienza ammaestrato, di una danza di scimmie in una stanza priva di gravità, o come mi aveva detto qualcuno (di importante per me), un dialogo con se' stessi nella galleria del vento. Componenti meccaniche che addestrano il caso, la fortuna, il talento, e altri elementi intangibili.
La tecnica, l'ispirazione, la preparazione atletica, la disposizione filosofica, l'essere pronti al sacrificio, l'essere vuoti e colmi allo stesso tempo, amare, odiare, aver visto cinquantamila film, aver ascoltato duecentomila dischi, aver visto mostre inutili in posti remoti (Anthony Caro, "Il Giudizio Finale", su uno degli isolotti satellite di Venezia), rendersi conto che nulla è inutile, e allora cercare cose ancora più inutili, ancora più remote, ostinatamente di parte nel non voler essere di parte. E ancora leggere Roland Barthes, leggere i porno e la Settimana Enigmistica, leggere Toppi. Vedere una strada possibile in Toppi e scoprire che è un vicolo cieco, sfogliare le riviste di psicologia dell'arte, trovare altri vicoli ciechi.
Fare musica, fare sesso, fare la spesa, fare commissioni inutili, fare ginnastica, fare continui atti di fede senza che nessuno se ne accorga, mentre lo fai. Fare.
Nascondersi per vedere se poi è vero che  si è più attraenti da trovare.
Conoscere la morte di una persona cara, accettarne il peso di una seconda di lì a poco. Vedere un coperchio appena sopra il cielo come diceva quell'idiota di Baudelaire, accettare quella visione. Rifiutare quella visione e ripartire come se si avesse risolto.
Convincersi che la realtà non è altro che uno specchio, che uno specchio non è che la finestra di casa da cui si scruta fuori, osservare il paesaggio e scoprire  che qualsiasi paesaggio è un volto.
Riconoscersi in quel volto anche se non è il proprio, amare quel volto.
E ancora perdersi, inutilmente ritrovarsi, e attorno a se' scoprire ancora una volta il mondo, così difficile da prendere, così impossibile da trattenere.
Se esiste un modo per dare una senso coerente a tutto quell'insieme informe di cui sopra e conseguentemente vedere chiaro su ciò che si deve fare, io non lo troverò mai, mi dico sempre.
Fare pulizia, cercare ordine non serve a nulla se non si ha nulla di significativo da organizzare. Studiare, informarsi, accumulare e immagazzinare non serve a nulla se non si hanno capacità organizzative che portino alla visione di un progetto, se non si ha discernimento.
Ordine e discernimento sono parole che non hanno mai fatto parte del mio vocabolario. Nonostante questo, il mio coglionissimo spaesamento di sempre mi serve per partire a disegnare. Lo sperare che ancora una volta io non venga tradito o ingannato da me stesso, dalla mia vanità soprattutto, è un ulteriore sprone.  La paura c'è e anche quella va bene che ci sia, ma non deve prendere troppo spazio, altrimenti si rischia di sfociare nella vanità di cui sopra.
Ok, gli strumenti sono pronti, e non sto parlando di matite, inchiostri vari e altre cazzate simili.



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