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Dopo Luther, mi sono ripromesso di vedere altri film di Eric Till, che mi aveva convinto molto in quella prova. Ho, così, trovato quest'altro titolo, dedicato a un controverso pastore e teologo tedesco della prima metà del '900, a cui è intitolato. Bonhoeffer conferma, a mio avviso, un regista dedito al film biografico, ma equilibrato nell'apologetica e capace di evitare inutili fantocci da aggiungere alle consuete gallerie.
Rispetto a Lutero, però, so obiettivamente meno di Dietrich Bonhoeffer, perché la sua figura non entra nei manuali di scuola e la mia formazione cattolica - ho scoperto dopo - si basa anche su un allontanamento di certe figure senz'altro controverse. Non sono in grado di filtrare bene ciò che ho imparato di quest'uomo, non ho gli strumenti o le conoscenze, anche se mi propongo, nei prossimi anni, di approfondire certe figure della fede, in special modo di quelle liminali, che puntano a essere cristiane, prima che appartenenti a una confessione religiosa, o se stesse, prima che membri di una comunità.
E in Bonhoeffer - che pure mi convince meno di quanto possa dire per Luther - ho trovato proprio questo: un uomo che vive nella sua chiesa e per la sua chiesa, in nome di valori fondanti per la stessa. Un uomo tutt'altro che perfetta, un uomo che capisco perfettamente, così com'è rappresentato, quando tenta di superare i titoli che gli vengono attribuiti (dottore, professore, pastore) per puntare all'assenza di un discorso o di un ragionamento, molto più importanti di colui che è preposto a diffonderli.
Dietrich Bonhoeffer è, nel film, tutto fuorché una persona ieratica. L'interprete (Ulrich Tukur) ha l'aplomb di un buon professore universitario, abituato a piccoli uditorii con cui fare un buon lavoro. Stenta perfino, a mio avviso, ad essere carismatico: ma senz'altro Eric Till vuole sottolinearne la forza e la presa sulla comunità con cui si relazionava. In questo film, più che in altri, ho avuto chiaro cosa voglia dire fare i conti contemporaneamente con un credo e con una situazione che sembra negarlo.
Il problema della teodicea, ovvero della giustizia divina, che durante il nazismo si pone quasi quale situazione limite, viene posto in modo esplicito quando si verifica la morte di due persone vicine al teologo e soprattutto alla giovanissima fidanzata, la bella Maria. E nella sceneggiatura si evidenzia chiaramente lo sforzo di trovare un senso per giustificare quanto avviene e per comprendere la sofferenza: e tutto questo, nonostante l'iniziale inaccettabilità istintiva di certe soluzioni, non smette di apparire come un sincero tentativo di arrivare alle radici di un credo e della realtà che si affronta.