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Per una serie di ragioni più o meno note, gli USA pescano da sempre nella figura del fuorilegge parte delle radici del proprio Mito. La Depressione degli anni '30 favorì lo sviluppo di una nuova tipologia di bandito, diversa da quella che scorazzava nei film western ma alla stregua di quella proveniente da un milieu selvaggio e privo di regole, estraneo alle organizzazioni criminali delle metropoli quanto figlio piuttosto della povertà delle terre meridionali. Sorsero gang di cinque o sei fuorilegge al massimo, a bordo di rombanti auto (di fatto il moderno succedaneo dei cavalli dell'outlaw per antonomasia: Jesse James) che favorivano azioni fulminee, toccate-e-fuga letali cui spesso seguiva la più implacabile delle cacce all'uomo. In Gangster Story (1967) Clyde Barrow, un damerino impotente impersonato da Warren Beatty, e Bonnie Parker (una strepitosamente bella Faye Dunaway), velleitaria ragazza di provincia, scappano assieme per spirito d'avventura, dando luogo a una serie di rapine che, condotte dapprima come passatempo, diventano ben presto autentiche azioni criminali. Ai due si uniscono ben presto il fratello di Clyde (un esordiente Gene Hackman) con la moglie e un ragazzotto fresco di riformatorio. Compiuto il primo delitto, la banda diventa molto popolare e alza la posta in gioco (moltiplicando gli assassinii). Sostenuto dalle composizioni a suon di banjo di Charles Strouse che evocano il country delle coltivazioni di grano a ridosso delle città, il quinto lungometraggio di Arthur Penn si guadagnò nove nominations e due premi Oscar, e venne inserito dall'American Film Istitute tra i migliori cento film di tutti i tempi. Riguardato oggi la pellicola presenta alcune vistose ingenuità (soprattutto nella caratterizzazione dei due protagonisti) figlie forse dello spirito sessantottino in cui essa venne partorita, epperò resta un documento davvero formidabile della capacità degli americani di assorbire il meglio degli stilemi in auge (qui si parla della nouvelle vague francese, Godard e Truffaut pare siano addirittura stati interpellati per una potenziale regia), nonché uno straordinario esempio di cinema d'assalto, capace di allargare lo sguardo (Penn era regista teatrale che seppe rivolgersi al Grande Schermo senza piegare il suo stile solido e dissacrante) e testimoniare con rigore cronachistico le vite condizionate dalla liquidità delle banche, la polvere e il furore che appartennero già alla prosa di Steinbeck. Ma in Gangster Story s'intravedono anche la nostalgica revisione dell'epopea del west e l'avvento della seconda motorizzazione del paese: riferimenti tematici che oltreoceano nutrono abbondantemente la tradizione e che contribuiscono a tracciarne il Mito (si pensi anche allo speculare Dillinger, firmato nel 1973 da Michael Cimino, in cui alla fine il bandito è ucciso all'uscita del cinema).
Ma è la «wasteland», lo spazio infinito e selvaggio immortalato dalla poesia di Walt Whitman, il vero fulcro di Gangster Story, una dimensione in cui storia e geografia si fondono trasformando le città in infernali illusioni da cui fuggire per rifugiarsi nei margini, nella frontiera. Ottimamente fotograto da Burnett Guffey (grandiose le foto in bianco e nero dei titoli di testa, che prelevano dalla Storia Reale i veri banditi), il film resta una visione unica e formativa, un tassello importante nel complesso mosaico iconografico di quella contradditoria, famelica e stuporosa nazione che è l'America.
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