Boskov e vilanova: il lato umano del calcio

Creato il 28 aprile 2014 da Carloca
                                       Boskov, signore di un calcio che non c'è più
Vuja, Tito e un vuoto grande così. Giorni tristi per il calcio: perché quando muore chi il football lo ha sempre vissuto con umanità, civiltà, lealtà e discrezione, muore una parte di  noi che ci ostiniamo ancora a credere in un pallone a misura d'uomo. Giorni da conservare e ricordare in futuro, anche: da ricordare perché le morti di Vilanova prima e di Boskov poi hanno suscitato un'ondata pressoché unanime di cordoglio e di rimpianto. Doveroso, certo, ma non era affatto scontato, in un mondo che vive troppo spesso di rivalità acide, inimicizie, rancori a lunga durata e persino odio strisciante. E invece, fra mille veleni, polemiche vuote e sterili, allenatori e giocatori incapaci di accettare critiche, evidentemente non abbiamo perso la capacità di apprezzare chi questo pazzo sport lo sa interpretare con lo spirito giusto, senza mai trascendere. E questi due fuoriclasse della panchina, pur così differenti l'uno dall'altro, hanno lasciato dietro di loro solo rispetto e affetto, solo ricordi positivi, e non certo per i risultati (eccellenti) di cui hanno costellato le rispettive carriere. LONTANI EPPURE VICINI - In apparenza diversi come il giorno e la notte, Vuja e Tito. Lo slavo era allenatore di stampo tradizionale, scevro da sofismi tattici, uno di quelli che "il giocatore viene prima degli schemi"; e uomo spiritoso, allegro, capace di approcciarsi con leggerezza a un ambiente e a una professione che solo leggerezza richiederebbero, altro che il clima opprimente e perennemente teso del calcio del Duemila. Dall'altra parte Tito, prototipo del trainer moderno, artefice, da ottima spalla di Pep Guardiola, del Barcellona del tiki taka, uno di quei team destinati a restare nella leggenda pallonara; e fuori dal campo persona sobria, pacata, mai sopra le righe. Lontani per linea tecnica e per carattere, eppure vicini per l'aura di umanità, di semplicità che li circondava. Due professionisti che sapevano dare il giusto peso alle cose, che non andavano al calcio come si va alla guerra. DESTINO INGIUSTO - La scomparsa di Vilanova è stata un trauma vero, per il sottoscritto. Morire così giovani è profondamente ingiusto, e ancor più ingiusto è lottare strenuamente contro un male subdolo, sottoporsi a terapie sfiancanti e ricavarne risultati in apparenza incoraggianti, per poi precipitare in puntuali ricadute. Uno stillicidio di speranze fugaci e di immediate disillusioni, una crudeltà vera. Tito ha vissuto il suo calvario con la stessa, olimpica serenità che infondeva nel suo lavoro: fra un ricovero e un altro, fra una terapia e un'altra, ha voluto rimanere attaccato al suo ambiente, continuare a guidare i suoi blaugrana, fin quando le forze glielo hanno consentito. E' normale, è un disperato tentativo di rimanere attaccati alla normalità quotidiana, perché se si pensa solo alla propria malattia si rischia di impazzire: lo so, ci sono parzialmente passato, anche se in maniera molto più soft, diciamo "di striscio". Ma anche la scelta di mollare tutto per dedicarsi alfine solo alle cure, per quanto ovvia e naturale, ha rappresentato un messaggio di enorme impatto: sì, riversare anima e corpo nel lavoro è importante, ma ad un certo punto l'attaccamento alla professione, anche alla più bella e remunerativa, deve scomparire, lasciando il passo alle vere priorità dell'esistenza: cercare di salvaguardare la propria salute, di salvarsi per se stessi, per la famiglia, per i figli. Priorità che andrebbero rispettate sempre, ma quando si è in buona salute non ci si pensa, e le infinitesimali problematiche del lavoro ci sembrano ostacoli insormontabili e guai irrisolvibili, ci sembrano la fine di tutto. 
                                     Vilanova, un tragico destino vissuto con dignità
QUELLA CENA DI TANTI ANNI FA - Per Boskov il discorso è un po' diverso. Superati gli ottant'anni, purtroppo, occorre essere sempre pronti al peggio, giorno dopo giorno: la salute diventa spesso precaria e altalenante. Ciò non toglie che la scomparsa di zio Vuja lasci dietro di sé un magone grande così, ma la tristezza è attenuata da dolci ricordi e dalla consapevolezza che l'uomo ha avuto una vita piena e ricca di soddisfazioni. Piccola digressione personale: con l'ex trainer condivisi, poco più di dieci anni fa, una cena di lavoro, ai tempi in cui ancora lavoravo come giornalista "vero" in una testata locale. Un Boskov un po' diverso, nella circostanza, dall'immagine che i media ne avevano ormai da tempo fornito: gentile ma non "caciarone" (forse però non era molto a suo agio, quella sera non erano presenti molti uomini di calcio), ma capace in pochi secondi di "ringalluzzire" una tavolata un po' spenta, un po' troppo ingessata, con un paio di battute fulminanti e un gustosissimo aneddoto. Ma questo è colore giornalistico: la realtà parla di un coach pratico e vincente, capace di tenere in mano gruppi di giocatori dalle personalità debordanti e di dotarli di un gioco lineare ed efficace, e al contempo spettacolare. L'EPOPEA DORIA E IL RISPETTO DEI GENOANI - Vissi in diretta l'epopea della sua super Sampdoria: per noi genoani non erano anni facili, ma debbo dire, in assoluta onestà, di non aver mai masticato troppo amaro vedendo i blucerchiati che vincevano e gli spelacchiati grifoncini che arrancavano: un po' di invidia sì, penso sia normale quando le traiettorie agonistiche della squadra rivale sono così distanti e così pregne di successi. Ma era una signora squadra, quella Samp, che riuscì ad emergere in un contesto di elevatissima qualità, di equilibrio livellato verso l'alto (altro che la mediocre Serie A di oggi...); era uno splendido gruppo di giovani e talentuosissimi virgulti italiani, giunti infine a maturazione per la soddisfazione della società di Mantovani senior ma anche del calcio azzurro, che delle qualità dei vari Vialli, Mancini, Vierchowod, Pagliuca e Lombardo usufruì con buonissimi risultati. Su tutti, con aria paciosa, vigilava Boskov, capace di non oltrepassare mai i limiti del buon gusto anche quando era coinvolto nelle più classiche polemiche calcistico - giornalistiche. Rispettato da tutti, e in linea di massima anche dai genoani, per la sua signorilità: se si pensa che la sua battuta più "acida" nei confronti dei rossoblù fu un innocente riferimento alle qualità pedatorie dell'uruguaiano Perdomo, paragonato al suo cane, si può ben capire come all'epoca, nella Genova calcistica, si respirasse aria tutto sommato fresca, impregnata di goliardia e di umorismo, anche quando si rivaleggiava fra le due sponde. Del resto erano gli anni di Vujadin, di Scoglio e di Bagnoli: personalità diverse, ma gente che sapeva cosa volesse dire esser "uomini di sport".  

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