di Alfredo Sasso
Alla vigilia del 1º maggio, su internet circolava un’immagine intitolata “1st May in Bosnia”, che ironizzava sull’assenza di manifestazioni per la Festa del Lavoro in Bosnia-Erzegovina, a differenza di ciò che avviene in molti paesi europei. Altrove la gente scende in piazza, in Bosnia invece il 1º maggio si trascorre davanti al roštilj, l’irrinunciabile grigliata di carne da consumarsi con familiari e amici, preferibilmente in aperta campagna.
A prima vista, la realtà di questo 1º maggio 2012 non è stata molto diversa da quell’immagine sarcastica. Le strade di Sarajevo sono rimaste deserte, così come quelle di Banja Luka e delle altre principali città del paese. A Mostar, la tradizionale manifestazione del Grah sa sindikatima (letteralmente “Fagioli con i sindacati”, in quanto si concludeva con un pranzo a base di zuppa di fagioli, considerato simbolicamente il pasto tradizionale dell’operaio) quest’anno è stata annullata: il sindacato organizzatore non aveva fondi, mentre l’impresa che tradizionalmente sponsorizzava (sic) l’evento è fallita di recente.
Eppure, in Bosnia di motivi per scendere in piazza ce ne sarebbero parecchi. I sindacati denunciano il mancato rispetto dei contratti collettivi, l’inapplicazione delle leggi sulla sicurezza e altre violazioni dei diritti dei lavoratori. Su questo quadro negativo grava innanzitutto la frammentazione istituzionale del paese (2 entità, 10 cantoni). Per citare un esempio, un rapporto dell’ILO pubblicato nel 2011 denuncia i conflitti di attribuzione tra l’esecutivo della Federazione BiH e i governi cantonali riguardo i controlli sulla sicurezza del lavoro, cosa che rende di fatto ineffettivo l’operato degli ispettori.
Tutto questo riguarda chi un lavoro ce l’ha, o dice di averlo. Infatti, secondo i dati ufficiali dell’Agenzia per la Statistica della BiH, a dicembre 2011 i senza lavoro ammonterebbero a circa 540.000, per un tasso di disoccupazione “reale” stimato al 27,6%. Questo dato è stato calcolato secondo i criteri statistici dell’ ILO, che non includono i “disoccupati formali”, cioè coloro che sono registrati alle liste di disoccupazione ma hanno un impiego in nero. Tanto per capire la differenza (e per rendersi conto della portata dell’economia sommersa in Bosnia-Erzegovina) i dati ILO del 2009 attestavano al 24,5% il tasso di disoccupazione “reale” e al 45,9% quella “ufficiale”: una forbice di 21 punti percentuali, cresciuta nel corso degli anni (nel 2006 era di 14 punti: 31,9% contro 45,7%). Ed è risaputo che “lavoro in nero” non fa propriamente rima con “tutele sindacali”.
La domanda a questo punto è scontata: se la situazione sociale è tanto allarmante, perché nessuno scende in piazza? Perché i sindacati non fanno nulla? Secondo cifre fornite da questi ultimi, in Bosnia-Erzegovina si sono svolti circa 500 scioperi negli ultimi 5 anni. Ma si è trattato principalmente di iniziative ridotte ed estemporanee, per lo più limitate alla singola azienda. I sindacati bosniaci non godono di ottima reputazione, perché considerati i paladini di interessi corporativi, quando non pedine cooptate dal potere politico. Le parole pronunciate da un dirigente dell’Unione Sindacale della Repubblica Serba di BiH, un po’ eccessivamente mielose e compiacenti verso l’esecutivo di Dodik & co. (“Abbiamo avuto un incontro costruttivo e serio con il governo, […] per questo non manifesteremo il 1º maggio”), destano più di un sospetto.
A Sarajevo, negli ambienti dell’attivismo molti ancora ricordano il 15 ottobre 2011, data della nota mobilitazione mondiale “Occupy 15-Oct”. Quel giorno una manifestazione si svolse anche nella capitale bosniaca, organizzata da diverse associazioni della società civile. Ma non dai sindacati, che un po’ inspiegabilmente declinarono l’invito a scendere in piazza, con grande disappunto degli organizzatori e dei manifestanti.