di Matteo Zola
Genocidio, pulizia etnica, stupro etnico: parole spesso usate a casaccio che hanno subito nel corso del tempo modifiche nel significato e nell’utilizzo giuridico. Le guerre jugoslave d’inizio anni Novanta furono un banco di prova in tal senso e le sentenze che, negli anni successivi al termine del conflitto, sono state emesse dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (ICTY), hanno contribuito alla ridefinizione di questi termini.
Un posto particolare spetta allo stupro cosiddetto etnico, uno degli strumenti di terrore più largamente utilizzati nelle guerre jugoslave. Il ricorso alla violenza sessuale non è certo una novità: fino alla Seconda guerra mondiale lo stupro era utilizzato come mezzo di umiliazione o vendetta sul nemico ma in Bosnia orientale, con l’aggressione delle truppe serbo-bosniache alle comunità civili di fede musulmana tra l’aprile e il novembre del 1992, qualcosa è cambiato. Lo stupro è diventato “di massa” allo scopo di colpire la capacità riproduttiva del gruppo etnico nemico. Come? Attraverso il trauma della violenza e dell’aborto che ne è la conseguenza più ovvia e diffusa.
Non ci sono dati certi sul numero di vittime anche perché, alla violenza, segue spesso l’omicidio della vittima. Il valore dello stupro etnico, però, è quello di lasciare viva nella comunità la ferita della violenza (e quindi la vittima). Inoltre, come dimostrato dalle molte testimonianze raccolte dall’ICTY, l’idea degli aggressori era quella di incidere, attraverso lo stupro, sulla composizione etnica futura della comunità aggredita. Aggressori e aggrediti, infatti, avevano (e hanno) in comune un’idea patriarcale della società che vede il nascituro come “figlio dell’uomo” e quindi – nel nostro caso – dell’aggressore. A testimonianza di ciò ci sono i numerosi casi di donne stuprate e poi detenute fino a che non fosse più possibile abortire.
Le donne vittime di stupro, nella società musulmana, sono poi vittime anche della marginalizzazione sociale: un isolamento che depaupera ulteriormente la società aggredita delle sue possibilità riproduttive.
Tutti questi elementi testimoniano come lo stupro cosiddetto etnico sia stato, nella ex Jugoslavia, oggetto di pianificazione e non già, come nelle guerre passate, estemporaneo veicolo di vendetta. Proprio la pianificazione è diventata uno degli elementi costitutivi dello “stupro etnico”, reato che (grazie all’operato dell’ICTY) è stato innalzato da “atto lesivo del pudore della donna” a “crimine contro l’umanità“.
I fatti di Bosnia, oltre alla ridefinizione dello stupro di guerra, hanno portato anche a una revisione del concetto giuridico di genocidio. L’esercito serbo-bosniaco fu, come è noto, responsabile del massacro di ottomila uomini nell’enclave di Srebrenica. Uomini, non donne. In quell’occasione gli uomini furono separati dalle donne, trasportati fuori città e uccisi nella convinzione di cancellare in tal modo la presenza dell’intera comunità bosgnacca. Alla base di questa convinzione stava la cultura patriarcale che vede nell’uomo il continuatore della gens. Con la sentenza del 2004 nota come sentenza Krstic’ il ICTY ha introdotto l’idea di genocidio anche in una sola regione e anche in presenza dell’annientamento di un solo genere*.
L’intenzione serba, in parte realizzata, era quindi quella di eliminare la comunità musulmana dalla Bosnia orientale sia uccidendo gli uomini -padri dei figli- sia violentando le donne -in modo da far nascere figli serbi, spaccando la comunità nemica, e inibendo ulteriori procreazioni. Il buon esito di questa pulizia etnica di genere è amaramente comprovata dal numero di bosniaci musulmani rientrati nelle loro case al termine della guerra: secondo l’Unhcr sarebbero 1.028.970, vale a dire la metà rispetto a quanti lasciarono le loro case terrorizzati dagli eventi bellici.
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