Viviamo in quella che viene definita all’unanimità la società dell’immagine, eppure trovo questa descrizione non solo superficiale ma anche fuorviante.
Aggiungerei: siamo nella società dell’immagine veloce, per non continuare poi con stereotipata, preconfezionata, immediatamente fruibile. Immagine come sinonimo di apparenza.
L’immagine, in vero, è altra cosa. E’ un terreno spazioso che invita all’indugio, che richiede competenze e sensibilità per la decodifica, che possiede un linguaggio. Tutt’altro che facciata quindi, spesso essa può farsi sostanza, contenuto.
Esistono – e remano assolutamente controcorrente rispetto all’idea che comunemente abbiamo quando parliamo di immagine – dei libri che sono costruiti dalla sola componente illustrativa.
Noi li chiamiamo comunemente silent book, insistendo su una caratteristica fisica-sensoriale – il fatto che possano essere interpretato senza usare la voce, con gli occhi, quindi senza un passaggio di suono tra chi legge e chi ascolta.
Ovviamente questa è una definizione che, seppur suggestiva ed evocativa, come tutte le definizioni limita. Un libro senza componente verbale può essere anche raccontato ad alta voce, facendo caciara, perfino in maniera corale.
Il nodo è che può essere letto in silenzio, può essere letto secondo i tempi scelti da chi vi si approccia, può prescindere da un intermediario.
Questa libertà sperimentata dal lettore con un silent book credo non sia riscontrabile in nessun’altra tipologia di testo.
Di fatto un albo senza parole è una grande palestra, per questo, sovente, spaventa molto l’adulto ed entusiasma invece il bambino.
Il piccolo in età prescolare si trova infatti improvvisamente abbattuto un ostacolo che sempre viene frapposto tra lui e la fruizione autonoma di un libro – l’apprendimento della letto-scrittura – , mentre il genitore resta impaurito all’idea di non avere a disposizione l’àncora delle parole, la traccia cui è abituato ad aggrapparsi quando una storia gli chiede di essere dipanata, svolta, raccontata.
Ma una storia preesiste la tipologia di narrazione – seppure ovviamente non la prescinda – confrontarsi con un silent può insegnare ad un lettore anche l’uso più libero e multilivello di un albo tradizionalmente dotato di parte verbale.
Questa tipologia di albi, per il fascino che esercita, ha ispirato un apposito contest internazionale che lo scorso anno è stato vinto da “Bounce Bounce”, opera dell’illustratore irlandese Brian Fitzgerald, pubblicato in Italia da Carthusia.
Un titolo onomatopeico – che ricorda il suono dei rimbalzi – per un albo di gran formato che, grazie anche alla preziosa qualità del supporto cartaceo – spesso e piacevolissimo al tatto – invita all’immersione, già invoca un spazio e un tempo d’elezione – non caotici, non rubati – per soffermarsi a sfogliare.
Ho sempre avuto questa credenza: la veste grafica di un libro, come anche le sue dimensioni, la tipologia di carta, tutto quello che è architettura, prima ancora di farsi contenuto, interagisce col lettore sotto forma di richiesta di una determinato livello d’attenzione. Crea una relazione che è fatta di aspettativa da una parte ma anche di domanda concreta dall’altra.
Un libro esteticamente bello, fattivamente curato, chiama chi legge a farsi spettatore vigile, di conseguenza entra anche nella gestione del suo spazio e del suo tempo. La lettura inizia da lì: dall’organizzazione del nostro contesto che operiamo prima ancora di conoscere ed approcciare l’oggetto che andiamo ad esplorare.
Iniziando a girare le pagine ci si accorge della particolarità degli sfondi: tinteggianti di colori diversi, ora più accesi ora più tenui, appaiono come graffiati tanto che l’intera opera pare quasi disegnata su legno, ispira quell’eleganza del materiale grezzo che è un richiamo per i sensi tutti, non solo per la vista.
Figure e ambienti seguono una rappresentazione semplice, gioiosa, con un’aurea un poco naif, ricche di candore, spontaneità, buffe e fresche.Così come il minuscolo protagonista: un animaletto che diremmo insetto volante, dal corpo tondo e tozzo, le antenne, curiosi occhi spalancati e due dentini irriverenti.
Seguendolo tra le pagine troveremo un filo narrativo immediato ma non banale, che offre la possibilità di essere agganciato e seguito facilmente come anche quella di venire a piacimento interrotto per indugiare su scene e personaggi, espressioni ed azioni.
Un bestiolino trova, tra le foglie e i fiori di un prato, un palloncino sgonfio. Un piccolo tesoro che non può essere ignorato ed ecco allora che soffiando, guance piene, provvede a renderlo di nuovo tondo.
Ma una volta gonfiato il pallone mostra anche occhi e, soprattutto, una bocca che sembra minacciosa. In realtà è inclinata in un sorriso ma l’espressione allarmata del nostro insetto e il fatto che, spalancandola, lo faccia finire dentro il suo involucro, mette il lettore un poco sulle spine.
Questo è un nodo cruciale, a mio parere, giocato su un registro emotivo delicato che merita qualche osservazione.
La rappresentazione dell’essere divorato è, al livello psicologico, inquietante per il bambino. E’ una delle paure più ancestrali, profondamente evocative, con le quali i piccoli sono ancora molto a contatto.
C’è da aspettarsi quindi che il lettore si agiti, si spaventi. A questo punto interviene la rappresentazione. Non tanto, secondo me, il fatto che il palloncino rida (la risata può essere anche sinistra e, comunque, lo sguardo ha un che di bieco) quanto che sia trasparente. La trasparenza lo trasforma immediatamente da “mostro” a “compagno, mezzo”: se l’animaletto si può ancora scorgere allora è tutto intero, noi possiamo vedere lui e lui può vedere il mondo. Cioè non è solo, separato, escluso.
Questo è un messaggio rassicurante perché, in fondo, per il bambino la morte, come la notte, è essenzialmente separazione, perdita del contatto con le persone amate.
E’ ora che l’albo si mette in moto e, animandosi la storia, cambia di fatto anche l’umore del protagonista.
Ancora spaventato dapprima – ché infondo ci vuole tempo per abituarsi ad una situazione nuova – si distende piano piano poi, fino ad essere contento.
Il pallone, che è leggero e quindi può volare in alto – ben più di lui anche se di fatto ha le ali – lo conduce sempre più su, tra strambi personaggi che osservano meravigliati.
Oltre le nuvole e la rotta di un aereo, fino allo spazio con i satelliti e le navicelle, tra extraterrestri e astronavi fluttuanti, i nostri due amici raccattano perfino una luminosa stellina che finisce anch’essa tra le pareti del palloncino a far compagnia al piccolo insetto.
Infine rimbalzano su un pianeta bitorzoluto e l’impatto li rispedisce verso la terra. Così solcando i cieli dove ora si innalzano orientaleggianti mongolfiere, finiscono a capofitto dentro al mare, che immaginiamo del nord vista la presenza di un pinguino su un’imbarcazione.
Tirando, però, il tappo si apre e, così come si era gonfiato, in un attimo l’involucro si affloscia, liberando l’ospite e la stellina.
I due sul prato si sfiorano, lasciando immaginare che rimarranno vicini – un’esperienza, d’altra parte, non lascia mai nello stesso stato in cui si era in partenza – mentre il vecchio palloncino resta lì, come all’inizio, tra erba e foglie.
Ma basta voltar pagina e un millepiedi, aggirandosi nel prato…
Un albo sorridente, una narrazione per immagini alla portata di bambino, anche piccolo, ma non per questo priva di magia. Anzi il tema del viaggio alla scoperta risulta profondamente intrigante e suggestivo, stimola la curiosità e impedisce la noia, anche grazie alle movimentate fasi del racconto e ai colpi di scena, tutti ben orchestrati dall’autore in modo da renderli comprensibili.
Probabilmente è questa la sfida cruciale di un silent book adatto ai piccini: riuscire a tracciare una storia che sia allo stesso tempo decodificabile con gli strumenti cognitivi a disposizione ma, allo stesso tempo, non chiusa in un solco eccessivamente definito, statico. Che offra cioè modo al lettore piccolo di spaziare oltre, di salire ad un gradino successivo nell’esercizio della fantasia e delle abilità interpretative.
E’ necessario, credo, che un bambino esca da una lettura senza aver sperimentato né la frustrazione né la stasi, sentire che chi ha pensato quel libro per lui lo ha fatto nel pieno rispetto delle sue capacità e nella piena fiducia nelle sue risorse e abilità, con l’occhio sempre volto alla straordinaria magia che è la crescita.
D’altra parte mi pare che “Bounce Bounce” con il tema del crescere abbia molto a che fare. Diventare grandi è un’avventura e un percorso disseminato di incontri, confortanti alcuni e spaventosi altri, corre attraverso terre sovente sconosciute, si può incappare in imprevisti e belle sorprese, e trovare presenze che a volte restano.
E soprattutto è una vicenda ciclica, che si ripete, che via via, era dopo era, accompagna tutti, dalla nascita al momento in cui ci diciamo adulti.
(età consigliata: dai due anni)
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