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"You know how everyone's always saying seize the moment? I don't know, I'm kind of thinking it's the other way around, you know, like the moment seizes us."
Vivere può essere un'avventura straordinaria: Hook-Capitan Uncino si chiudeva con questa battuta, in sintonia con la delicata attitudine che Steven Spielberg ha sempre dimostrato verso il racconto dell'infanzia, dicendo addio all'Isola che non c'è e invitando genitori e figli a non guardare con malinconia all'inevitabile momento della crescita; mentre l'incanto dei mondi fantastici che con tanto fervore abbiamo abitato finisce per diradarsi e lasciare spazio alla vita vera e alle sue costanti, un'altra magia misteriosa e inafferrabile prosegue la sua opera camminando lungo la linea del tempo, fra abbaglianti istanti di felicità e buchi neri di dolore, per comporre il puzzle della nostra intera esistenza.
Dopo anni e anni di revisioni, il ricordo di quella frase si è fatto piuttosto insistente durante la mia visione di Boyhood, il film di Richard Linklater che batte sul suo stesso terreno il già ardito esperimento della splendida Before Trilogy: a rendere cinematograficamente interessante la storia di Mason, figlio di una famiglia disfunzionale e complicata come tante altre nel mare della sterminata nazione americana, sono i 12 anni di riprese che hanno accompagnato la vita del giovane attore protagonista dai primi anni della fanciullezza fino al suo diciottesimo compleanno, piccoli quadri cuciti insieme anno dopo anno per uno studio quasi chirurgico delle trasformazioni fisiche ed emotive alle quali il ticchettio dell'orologio ci ha destinati senza appello.
Separare la straordinarietà del progetto dalla sua stessa realizzazione sarebbe scorretto, ma senza il tocco attento e personale del regista l'intera operazione sarebbe probabilmente collassata sotto il peso delle sue ambizioni, svelando lo scheletro di un grezzo reality travestito da grande cinema: lo spauracchio viene respinto con destrezza dalla mano di Linklater, che filtra il percorso di Mason attraverso lo sguardo commosso e partecipe del pubblico e lo trasforma nel rito di passaggio di una generazione e ancora di più di un'intera Nazione; ci sono le prime amicizie, strette nel vicinato durante i lunghi pomeriggi di noia negli immobili quartieri di provincia, il trasferimento da uno stato all'altro con la consapevolezza di potere e dovere ricominciare da zero, le notti in campeggio coi genitori passate a parlare di tutto e di niente, il sogno del cambiamento nella campagna presidenziale di Obama e il suo affievolirsi in un conservatorismo rassicurante che insegna ai giovani la cultura delle armi e tiene la bibbia sotto il cuscino, i primi lavoretti part-time e le tuniche scintillanti del giorno del diploma, quando arriva il momento di tagliare il cordone e volare via dal nido, per andare al college e prendere finalmente in mano il proprio destino.
Altrettanto fitta è la maglia di contemporaneità che riesce a osservare fenomeni sociali e culturali, cogliendone l'importanza definitiva in tempo reale e incastonando lungo la strada opinioni ed episodi alquanto curiosi: se l'onda lunga del fenomeno Harry Potter si avvertiva sin dai primi capitoli e il rischio di piatta omologazione generato dall'uso smodato di facebook è ormai parte integrante delle nostre vite,, l'inutilità di un nuovo capitolo della saga di Star Wars è stata ironicamente smentita dalle manovre aziendali della colossale macchina della Disney.
A sorprendere davvero in Boyhood è però la sua capacità di guardarti dentro, spingendoti a sfogliare nuovamente quel personalissimo album di fotografie che pensavi di aver riposto con coscienza nell'armadio: le opportunità che hai perduto e gli errori che hai commesso, le persone che erano lì per te e che poi si sono improvvisamente allontanate dalla tua strada, le case che hai lasciato senza voltarti indietro e tutte le albe che hai condiviso con le persone che amavi appaiono sullo schermo e stanno lì ad osservarti, mentre assaggi le lacrime e sorridi malinconico, pensando a ogni singolo unico attimo che è riuscito a trovarti prima di diventare passato.
La finestra sulla vita di Mason e dei suoi cari si chiude senza clamore così come era stata dischiusa, ma mentre alzi lo sguardo verso il cielo e il futuro con gli stessi occhi azzurri di speranza e incognite del nostro giovane protagonista, capisci che la magia dell'opera di Linklater resterà a farti compagnia a lungo; forse in vita nostra non avremo mai l'occasione di vedere un elfo domestico o un ippogrifo, ma come il padre di Mason(Ethan Hawke, qui in veste di vero e proprio alter ego del regista) suggerisce con saggezza al suo bambino, una grande balena nell'oceano può essere più maestosa e potente di qualunque altra immagine nella nostra mente: perché la promessa dell'esistenza è un sogno ad occhi aperti dalle aspettative insaziabili, ma a volte basta semplicemente vivere.
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