Io penso che sia veramente giunto il momento di metter fine a questa storica inimicizia fra i giornalisti radiotelevisivi italiani e la pronuncia dei nomi stranieri. Costoro hanno sempre affrontato il problema con quella sorta di fatalismo con la quale si va valorosamente incontro a cimenti impossibili per amor di patria. Eppure il problema, nella stragrande maggioranza dei casi, non è mai esistito: per risolverlo basta informarsi, cosa che nell’era di internet è diventata di una facilità estrema. Se lo facessero scoprirebbero che di nomi veramente impronunciabili ce ne sono pochissimi; scoprirebbero che perfino il fitto coacervo consonantico di qualche nome polacco nasconde spesso un’armonia di suoni amichevole e facile a scandirsi; si sorprenderebbero piacevolmente della comodità del primo passo della loro iniziazione ai misteri linguistici; e s’instillerebbe poco a poco in loro la passione per la correttezza fonetica; ed infine avrebbero maggiore stima di sé, cosa che in modo sottile si trasmette sempre allo spettatore.
Pensate com’è piacevole ascoltare Franco Bragagna: ma cos’è questo piacere se non il riflesso del vivo piacere col quale il telecronista della RAI pronuncia esattissimamente i nomi di atleti ungheresi, polacchi, estoni, olandesi, turchi, o magrebini? E come non rimanere incantati quando nel nominare qualche atleta spagnolo Bragagna sceglie la pronuncia castigliana invece di quella latino-americana, per noi italiani più naturale? E’ ben vero che in Bragagna, al quale in grazia dei meriti acquisiti sul campo linguistico perdono pure l’evidente progressismo politico che le sue dissertazioni ogni tanto tradiscono, la correttezza fonetica non è solo il frutto della serietà professionale, ma anche il riverbero grazioso di una tuttologia raffinata che arricchisce, senza per questo stornare l’attenzione dal fatto sportivo, che anzi è seguito sempre con la massima acribia possibile, ogni sua telecronaca, anche quella di una corsa campestre o di una gara minore di sci di fondo. Ma questo non toglie nulla alla bontà dell’impresa per chi è meno naturalmente dotato.
Se stoltamente i nostri giornalisti giudicassero questa strada troppo impegnativa, potrebbero trovare una decorosa soluzione ai loro problemi linguistici seguendo l’esempio francese. Dubito, però, che ci riuscirebbero. La soluzione francese sembra sulla carta la più agevole e drastica del mondo: pronunciare tutti i nomi stranieri come se fossero scritti nella lingua ufficiale della madrepatria. Ma come farlo restando seri e senza rendersi ridicoli di fronte alla platea italica? I francesi, che sono una nazione da mille anni, e che fin dai tempi di Ugo Capeto hanno avuto una grandissima considerazione di se stessi, lo fanno invece da sempre con la massima naturalezza. E’ un fenomeno straordinario, quasi arcano, assolutamente da non sottovalutare e degno d’essere studiato.
Mi sono confermato in quest’impressione nelle ultime settimane seguendo ogni sera, per una mezz’oretta, giusto per tenermi in esercizio con la lingua di Molière, il canale di news France 24. Qualche giorno fa sono caduto in preda a due sentimenti contrastanti. Prima mi sono quasi scompisciato dal ridere: la conduttrice, una bionda da infarto, chiacchierava con un’inviata al Festival di Cannes dell’ultimo episodio della saga Mad Max, citando bel bella a più riprese il nome del regista del film, George Miller, cioè Zhorzh Milèr, dove per “zh” si intende la pronuncia francese della lettera “j”. Ma poi la stessa bionda da infarto mi ha quasi ipnotizzato, quando cioè si è messa a parlare della sfida tra Real e Juve; la quale Juve dalla bocca a cuoricino della bionda è stata irresistibilmente trasformata nella …Zhüv. Zhüv, Zhüv, Zhüv… sopraffatto da questa dolcissima e sensuale scarica di Zhüv, per la prima volta nella mia vita – ed è stato qualcosa di voluttuoso ed orribile insieme – mi sono sentito quasi juventino. Non c’era proprio niente di ridicolo: come potevo resistere alla forza soverchiante generata dall’alleanza fra il genio della lingua e quello della femmina?
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