Le mie lise Converse gialle fotografano la scena meglio di qualunque rappresentazione: una è ancora poggiata sul parapetto di cemento, l’altra si libra già nel vuoto. Ai piedi indosso Vita e Morte. Il vento freddo di questa notte di Natale mi scarmiglia i capelli. Alzo lo sguardo verso il cielo intonso e la luna sta ancora lì, frastagliato satellite di seconda mano che per millenni è stato muto testimone di scelte simili alla mia. Le formiche radunatesi attorno al palazzo agitano le minuscole zampe. Non le sento ma posso immaginare. “Non farlo, ripensaci, ti prego”. “Ti prego. Non sono Dio”, sussurro amaro. Cinico come la vita che ho deciso di ripudiare. Non posso fare a meno di pensare, un attimo prima di staccare anche l’altro piede dal cornicione, che ci vuole più coraggio a suicidarsi a 95 anni suonati che a 20. Aveva questa età Mario Monicelli quando si gettò il 29 Novembre 2010 dal quinto piano del reparto di urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato per un cancro alla prostata in fase terminale. Poteva aspettare la Morte nel suo letto, lasciare che i telegiornali preparassero i loro agiografici “coccodrilli” postumi, far sì che la comunità cinematografica si riunisse intorno al suo capezzale, poteva persino abiurare il suo pervicace anticlericalismo richiedendo l’estrema unzione. E invece, quella notte, il moribondo regista raccoglieva le sue ultime forze e decideva di uscire di scena con la consueta libertà indomabile. Con altrettanta, indomita ironia ha per tutta la vita alimentato l’equivoco del suo luogo di nascita. Nato a Roma il 16 Maggio 1915 per anni si è divertito a non smentire la notizia (peraltro apparsa in molte biografie ufficiose e solo recentemente confutata, passaporto alla mano, dalla sua compagna) che fosse un nativo viareggino. Trovo che il primo e l’ultimo ciak del film dell’esistenza di Monicelli lo rappresentino meglio di qualunque rassegna.
Quando gli chiedevano a quale dei suoi capolavori fosse più affezionato rispondeva sempre “L’armata Brancaleone”. Difficile dargli torto. Con “L’armata Brancaleone” Monicelli ha regalato alla commedia italiana uno dei suoi migliori personaggi, amato trasversalmente da critica e pubblico. Fu ed è tutt’oggi un tale successo, sia per l’originalità della storia che per la resa comica, da ottenere il più alto riconoscimento che un’opera culturale possa avere: entrare nel linguaggio comune come vocabolo autonomo. Dal 1966, anno di uscita nelle sale italiane, si suole definire “armata brancaleone” un qualunque manipolo di scalcagnati, inconcludenti ed improvvisati eroi. Come nella migliore tradizione del cinema italiano, merito di Monicelli è essersi circondato per il film del miglior armamentario che l’epoca poteva offrire: la sceneggiatura è scritta, oltre che dallo stesso regista, da Age e Scarpelli; le arcinote musiche sono di Carlo Rustichelli e cantate dal tenore lirico leggero Piero Carapellucci; scenografie e costumi, con la scelta di quei colori sgargianti che rimandano alla pop-art a fronte di una tradizione che denotava l’ambientazione medievale con tinte più fosche, sono di Piero Gherardi, già collaboratore per “I soliti ignoti” e fresco vincitore per Fellini di due Oscar con “Otto e mezzo” e “La dolce vita”. Due sono in particolare, tra i tanti, gli elementi entrati di prepotenza nel mito collettivo: la performance di un impagabile Vittorio Gassman e l’invenzione di una lingua che si muove tra un latinorum maccheronico, vernacoli dei volgari medievali e dialetti odierni.
“L’armata Brancaleone” si regge innanzitutto sulle capaci spalle del mattatore Gassman (nomignolo derivatogli da una fortunata trasmissione televisiva del 1959, dove l’attore si esibiva in salti, capriole e gag da atleta mancato quale effettivamente era). In questo film più che in altri, egli ha infatti l’occasione di unire i due registri antinomici nei quali eccelleva: quello teatrale e quello comico. Brancaleone da Norcia è infatti contemporaneamente tragico e ridicolo. Sempre desideroso di “pugnare” per ottenere la gloria spettante a un nobile cavaliere qual si crede di essere, i suoi pur coriacei tentativi di raggiungerla vanno quasi sempre a vuoto. Indicativa in tal senso la sua prima apparizione: con l’usuale voce tonante chiama il suo cavallo Aquilante, ma l’animale, tinto di un giallo osceno, fa le bizze e lui per tutta risposta lo picchia con frustrazione. L’altro elemento peculiare della pellicola è, come detto prima, l’invenzione di un linguaggio che gioca su diversi registri e secoli. Strizzando l’occhio alla pomposità dei poemi cavallereschi, i personaggi si esprimono usando buffe ampollosità (“Cedete lo passo tu”) e lingue arcaiche intervallate genialmente da dialettismi (Fracico ’sto portone). Oltre alla gigionesca presenza di Gassman, il cast vede la presenza di quei formidabili caratteristi, che come lamenta da tempo Paolo Mereghetti, il cinema italiano degli anni passati sapeva ben coltivare in antitesi alla desolazione attuale.
Perfino una stella di primissima classe quale Gian Maria Volonté si presta ineffabilmente a interpretare il ruolo di Teofilatto dei Leonzi, così avulso dai precedenti ruoli di cattivo nei film di Sergio Leone e da quelli successivamente impegnati con Elio Petri. Forse perchè imposto a Monicelli dal produttore Mario Cecchi Gori, Volonté con la sua abituale r moscia, sembra scorrere svogliato per tutto il film, ma è il capzioso personaggio che interpreta a richiedere un’interpretazione così pigra. Basta un ridicolo cappello da Puffo e una voce monocorde a tratteggiare con efficacia la figura di un subdolo figlio che chiede di essere rapito per estorcere denaro al ricco padre (che tra l’altro non scucirà nemmeno un soldo di stagno per la sua liberazione!). Doverosa inoltre la segnalazione per il rachitico Carlo Pisacane nei panni dell’avido Abacuc (anche lui già indimenticato protagonista per Monicelli de “I soliti ignoti”), di Enrico Maria Salerno che interpreta il monaco Zenone, di una appena ventenne Catherine Spaak nei panni di Matelda, e di quella Barbara Steele che con i suoi enormi occhi e il suo viso cubista ha segnato il miglior cinema italiano horror di due decadi, a partire dal capolavoro “La maschera del demonio”, di Mario Bava.
Che Nanni Moretti, nella sua furia demolitrice verso il vecchio cinema dei padri, abbia preso un abbaglio fulminante nell’additare Monicelli come un reazionario (mi riferisco naturalmente al famoso scontro televisivo che li vide protagonisti durante la promozione de “Io sono un autarchico”) è confermato, semmai ce ne fosse bisogno, proprio da “L’armata Brancaleone”. È pur vero che il film segue una struttura consolidata che fa il verso, in calce, ai romanzi cavallereschi: viaggio iniziatico dell’eroe che dovrà dimostrare il proprio valore, accompagnato dai suoi sodali ma intervallato da numerose tappe intermedie che dilatano il respiro del racconto. Monicelli sceglie di seguire questo tòpos narrativo, innestandovi però alcuni accorgimenti tipici del suo cinema: scrittura ispirata, gusto toscano per le battute salaci, personaggi ridicoli ma non completamente esecrabili, spunti storici rispettati ma non seguiti pedissequamente (vedi scenografie e costumi). Solo Mario Monicelli poteva iniziare una commedia con scene di violenza che toccano punte splatter! Il film ha un finale aperto: lasciamo il nostro eroe Brancaleone, unitosi ai pellegrini di Zenone, che cerca di approdare in Terrasanta per liberare il Santo Sepolcro. Ed è proprio da qui che parte il seguito “Brancaleone alle crociate”, uscito nel 1970.
Oltre che suicida, eretico. Minosse avrà l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda il cerchio finale a cui destinarmi. La mia blasfemia è questa: “Brancaleone alle crociate” è migliore de “L’armata Brancaleone”. Innanzitutto stessa squadra in fase di scrittura. Monicelli, Age e Scarpelli fanno tesoro delle imperfezioni del primo film, dando a questo seguito una struttura molto più compatta. Vi sono tutti gli elementi di successo de “L’armata Brancaleone”, arricchiti da una storia che punta ancora più in alto. Anche questa volta le animazioni di Emanuele Luzzati, accompagnate dal celebre motivetto musicale, danno il via alla vicenda. La pellicola in realtà parte male: Brancaleone sembra aver ceduto alle pressioni del pubblico e da splendida caricatura qual era, sembra trasformatosi in penosa macchietta. Le pose plastiche sono le stesse del primi film ma nei primi dieci minuti Gassman eccede in strilli e tarantolate gratuite. Unica vera risata di questo incipit è la battuta: “Tu, monco, allo timone”. Poi la svolta metafisica: Brancaleone, scampato fortunosamente all’eccidio dei pellegrini del monaco Zenone, invoca disperato la Morte. E la Mietitrice si palesa davvero, con mantello nero e falce d’ordinanza. A ricordarci che siamo pur sempre in un lungometraggio di Monicelli e non di Bergman, essa si esprime in un fiorentino stretto e dà a Brancaleone sette lune per trovare la fine gloriosa a cui egli aspira. Nel corso di alterne peripezie, Brancaleone approderà finalmente a Gerusalemme e avrà l’occasione di distinguersi in battaglia contro gli infedeli. Anche in questa avventura l’eroe si circonda di un’improbabile armata, ancora più strampalata della precedente. Il suo seguito vede infatti la presenza di un nano, di una strega, di un lebbroso e di un penitente masochista.Nella nuova compagnia spicca la presenza di alcuni grandi nomi della commedia italiana. Il film lancia ad esempio la carriera cinematografica di Paolo Villaggio, che interpreta il pavido soldato alemanno Thor, trasportando su grande schermo uno dei suoi più divertenti personaggi del piccolo schermo. Troviamo anche Gigi Proietti, l’eterna promessa comica mai riuscita a diventare un colonnello della commedia. Qui interpreta addirittura due ruoli: oltre a “Pattume”, presta corpo e voce proprio alla Morte. Adolfo Celi si cala con la solita maestria negli abiti del re borbonico Boemondo, che si esprime in rime baciate con divertente cadenza siciliana. Sul fronte femminile azzecatissima si rivela la scelta della sensuale Stefania Sandrelli, nel ruolo della strega che nel finale si immolerà per salvare la vita di Brancaleone. Alla seconda prova, ormai pieni padroni della lingua brancaleonesca, Monicelli e gli sceneggiatori riescono a farle raggiungere vette di originalità mai toccate prima e financo a piegarla verso tematiche più serie. Splendida ad esempio l’esternazione sull’inoperosità di Dio redatta da Brancaleone in rima baciata per adeguarsi al re Boemondo: “Ma lassù l’Onnipotente, guarda, tace e face niente?”. E per quanto riguarda la genialità comica basti citare la celebre: “Un solo grido, un solo idioma: Scappoma”. Il secondo film della serie, come il primo, vede un paio di inserti barbarici a sugellare quell’epoca violenta che era il Medioevo. Thor stava per uccidere l’infante di Boemondo e gli stessi scontri, più coreografati, zampillano sangue.
Novità assoluta si rivela invece l’inserimento di almeno due parentesi drammatiche, perfettamente inserite nel contesto. Si veda la scena dell’albero degli impiccati, con il suo purtroppo attuale monito contro ogni intolleranza. Non si dimentichi nemmeno la morte del nano che, pur stemperata da qualche risolino, lascia comunque l’amaro in bocca. Ma l’acme poetico si raggiunge nel finale. Monicelli palesa un affetto così forte verso il personaggio da farlo addirittura combattere con la Morte. Lotta impari, si sa che la Falciatrice è immortale, ma Brancaleone accetta ugualmente questa sfida titanica. L’inquadratura che dà l’addio al personaggio, vede il cavaliere ripreso da un’instabile skycam che vaga nel deserto, con l’amata trasformatasi nuovamente in gazza dopo il suo sacrificio. Non avrà liberato Gerusalemme, ma fine più gloriosa Brancaleone non poteva desiderare. Adesso, invece, è giunto per me il momento di uscire di scena. Dopo otto piani e la recensione di due film il mio corpo termina il volo e si sfracella al suolo con tonfo sordo. Quelle formiche ridiventano persone che mi si stringono subito attorno. Un bel viso di donna stillante gocce d’acqua e sale dai bulbi oculari si avvicina a ciò che resta della mia faccia dopo lo schianto. Come Monicelli raccolgo le ultime forze e ho giusto l’energia di sussurrarle all’orecchio: “Branca-Branca-Branca”. Rovescio gli occhi all’indietro per l’ultima volta ma mi sembra di sentirla continuare così: “Leon-Leon-Leon”. Muoio sorridendo.