IMMANUEL KANT
Nella traduzione italiana si trova quasi sempre la parola Giudizio con la ‘g’ maiuscola, per evidenziare che il giudizio in questione non è quello della Critica della ragion pura , sinonimo di proposizione ovvero di attività unificatrice.
Il giudizio di cui parla Kant è la facoltà del giudicare, e non l’atto del giudicare, ovvero l’esprimere giudizi:
all’inizio dell’opera, si attua un’ulteriore distinzione, spiegando che il giudizio in questione, oltre a non essere quello della prima Critica, non è nemmeno il giudizio determinante , bensì è quello riflettente .
Giudizio determinante è quello in cui ci si imbatte predicando qualcosa in modo oggettivo, dicendo ad esempio che il libro è sul tavolo o che A è causa di B ; è definito giudizio determinante proprio parchè determina l’oggetto (il libro, A, ecc) dei giudizi.
Al contrario, il giudizio riflettente , proprio della Critica del Giudizio , è la facoltà del giudicare che si estrinseca nei giudizi, senza determinare l’oggetto ma limitandosi ad interpretarlo: il giudizio riflettente non determina gli oggetti (come fa il giudizio determinante), ma li trova già determinati dall’applicazione delle categorie e non fa altro che riflettere su essi interpretandoli. Dunque, i giudizi con le categorie hanno funzione determinante, ma quando trovo l’oggetto già determinato dalle categorie mi limito ad interpretarlo, a riflettere sull’oggetto già costituito. La forma a priori in base alla quale si interpretano gli oggetti nel giudizio riflettente è il concetto di finalità, che, in sostanza, altro non è che una 4° idea di cui Kant non ha ancora parlato.
Si tratta di un’idea in quanto è un concetto non dell’intelletto, ma della ragione, ovvero non può essere riempito di contenuto empirico. In base alle categorie, infatti, il mondo fenomenico può essere interpretato solo secondo il meccanicismo, e non riusciremo mai a trovare in esso il finalismo: ne consegue che il concetto puro di finalità è un’idea, che nel mondo fenomenico non potrà mai essere riempita di contenuti, ma in quello noumenico, definito anche da Kant regno dei fini , lo sarà.
Un insieme di fenomeni non potrà mai pienamente soddisfare il concetto puro di finalità, ma, ciononostante, noi lo applichiamo a due ambiti distinti ma, secondo Kant, tra loro connessi: avremo dunque due tipologie di giudizio riflettente, il giudizio estetico e il giudizio teleologico .
IL GIUDIZIO ESTETICO è il giudizio sul bello, il giudizio teleologico (dal greco telo V , fine ) è il giudizio sull’esistenza di finalità nel mondo biologico e naturale. Quando asserisco che il paesaggio che ho di fronte è bello formulo un giudizio estetico , quando invece dico che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi formulo un giudizio teleologico.
Kant usa il termine ‘estetico’ nel senso comune, come ‘ciò che ha a che fare con il bello’, e non, come lo aveva usato nella Critica della ragion pura , con il significato di ‘ciò che ha a che fare con la sensibilità’. Dire che il paesaggio che ho di fronte è bello è un giudizio riflettente estetico e non teleologico parchè con esso non fornisco informazioni oggettive, mi limito ad applicare il concetto di bellezza ad un qualcosa e, così facendo, non determino nulla: il paesaggio che dico essere bello è già determinato come oggetto di conoscenza dalla categoria di sostanza, con la conseguenza che interpreto un oggetto che ho e che non determino; ad esso applico un giudizio estetico, scevro da informazioni oggettive e scientifiche, una mera riflessione su un giudizio già determinato. Anche il giudizio teleologico è riflettente, poichè ha a che fare con la finalità. Infatti, predica la finalità al mondo biologico e naturale, sostenendo che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi o che piove parchè la vegetazione cresca .
L’intera fisica aristotelica era di stampo teleologico, ma Kant è convinto che il giudizio teleologico non possa avere validità scientifica: la spiegazione del perchè il cavallo abbia gli zoccoli non potrà che risiedere nei fatti materiali e meccanici, cioè nei fatti che hanno portato il cavallo ad essere dotato di zoccoli, e non potrà essere trovata nella presunta finalità per cui li ha. Per Kant, dunque, l’unica via possibile resta quella della fisica meccanicistica di matrice newtoniana, dove, in parole povere, ogni fatto che sta dietro determina quel che sarà dopo e non, viceversa, dove è quello che verrà dopo a determinare quel che è prima, come nei giudizi teleologici: scientificamente sarà dunque scorretto dire che l’esigenza di poter camminare su terreni scoscesi ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli. Sarà invece corretto dire che, meccanicisticamente, determinati fatti hanno fatto sì che, con il processo causa-effetto, il cavallo avesse gli zoccoli. Resta ora da chiarire che tipo di rapporto vi sia tra i due giudizi riflettenti, estetico e teleologico: in primo luogo, sono entrambi riflettenti, interpretano cioè oggetti già determinati dalle categorie; in secondo luogo entrambi hanno a che fare con l’idea di finalità, sebbene nel giudizio teleologico si pretenda di coglierla nei rapporti che legano tra loro le varie parti di un ente biologico (gli zoccoli e il cavallo), mentre nel giudizio estetico si ha la pretesa di coglierla nel rapporto che si instaura tra il soggetto e l’oggetto. Infatti, secondo Kant, il giudizio estetico è un giudizio sul particolare tipo di relazioni che si instaurano tra il soggetto e l’oggetto, e non tra le sole parti dell’oggetto (come è invece nel teleologico). Di fronte ad un cavallo posso dire che ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi (giudizio teleologico) o posso dire che è un bell’animale (giudizio estetico) , senza giudicare se gli zoccoli sono fatti per realizzare dei fini. Kant fa l’esempio del fiore: un botanico, osservandololo, dirà che tutte le parti che lo compongono (i petali, lo stelo, ecc) servono a qualcosa, sono in vista di un fine, una persona qualunque invece dirà semplicemente che il fiore è bello.
A ben pensarci, se è evidente che nel giudizio teleologico vi sia la finalità, meno evidente è che essa sia presente nel giudizio estetico: Kant spiega che l’estetico è un giudizio in cui si rileva una sorta di finalità senza però poterla determinare a fondo. Una cosa, infatti, ci appare bella quando dà l’impressione che in essa vi sia una specie di progetto, che non sia stata fatta a caso, che ci sia cioè un fine in essa, sebbene non si sia in grado di definirlo (a differenza del giudizio teleologico). La differenza tra i due giudizi sta proprio nel fatto che nel teleologico si definisce perfettamente la finalità, mentre nell’estetico la si avverte soltanto . E’ interessante notare come Kant si accorga che i giudizi estetici siano formulabili tanto su cose naturali quanto su cose artificiali: fa notare che in entrambe i casi si avverte una sorta di finalità, tant’è che si è soliti dire, di fronte ad una cosa artificiale, che è talmente bella da sembrare vera e, di fronte ad una cosa naturale, che è talmente bella da non sembrare vera, quasi come se cogliessimo una sorta di progettualità in esse. Così, di fronte ad un bel paesaggio avremo l’impressione che esso sia il frutto del lavoro di un giardiniere e, di fronte ad un bel quadro, avremo l’impressione che si tratti di un qualcosa di reale.
Di sfuggita, si può notare che Kant ha soprattutto in mente la bellezza naturale e poche volte fa riferimento a quella artificiale. Ricapitolando, una cosa è bella quando sembra manifestazione di un progetto, volta a realizzare un fine.
Kant darà 4 definizioni del bello ed è interessante notare che in una di esse finirà per dire che è bello ciò che manifesta una finalità senza scopo: nel linguaggio kantiano, scopo è una finalità determinabile o già determinata, mentre finalità è una finalità vaga, non determinata nè determinabile. La finalità del giudizio estetico, del bello, è priva di scopo proprio perchè la si avverte ma non la si può determinare, mentre la finalità del giudizio teleologico è una finalità dotata di scopo , poichè riesco a determinarla, a dire effettivamente quali sono i fini delle cose che vedo. In origine Kant non aveva previsto la composizione della Critica del Giudizio in quanto restava esclusa dalla ragione e dai suoi due ambiti (teoretico e morale) la possibilità di fare una critica del gusto, del giudizio riflettente, poiché esso è fondato sul sentimento e non sulla ragione: una critica, diceva Kant, può essere costruita solo sulle facoltà razionali, tant’è che l’intero impianto delle prime due critiche si fonda sulla convinzione che le due esperienze, gnoseologica e morale, non si fondino sui sentimenti. Tuttavia Kant si rese conto che è senz’altro vero che il gusto ha a che fare con il sentimento e che il giudizio di bellezza non è nè teoretico nè pratico, ma fondato sul sentimento estetico; però si rese anche conto che il sentimento su cui si fonda il giudizio di bellezza deriva dal funzionamento delle nostre facoltà conoscitive . Partendo da questa considerazione, Kant riesce a spiegare una cosa molto particolare, ossia che i giudizi di bellezza non sono nè universali nè particolari . Che non siano universali è evidente, in quanto si fondano sui sensi e non sulla ragione: se dico che il libro è sul tavolo , si tratta di un’affermazione valida per tutti, perchè tutti hanno le categorie nelle loro strutture mentali; ma se dico che mi piace il gelato al cioccolato , si tratta di un’affermazione fondata sui sensi e quindi valida per me, magari per molti altri, ma non per tutti.
Tuttavia i giudizi di bellezza, a ben pensarci, sono stranissimi: non mi sarà mai possibile dimostrare a qualcuno che una cosa è bella, ma, ciononostante, ho la convinzione, quasi la pretesa, dell’universalità della mia affermazione. Ecco dunque che affiora il carattere non universale ma neanche particolare di tali giudizi. Accanto ai giudizi puramente oggettivi (conoscitivi e morali) e soggettivi (di gusto: mi piace il gelato al cioccolato), vi saranno quelli estetici (giudizi di bellezza), che non sono nè soggettivi né oggettivi. Del bello si può parlare, si può argomentare a favore della bellezza di una cosa, nutrendo sempre la pretesa che la nostra affermazione sia universale pur non potendolo dimostrare perchè si basa pur sempre su un sentimento. Questo sfumato carattere di ambiguità può essere spiegato in questo modo: i giudizi estetici si fondano sul sentimento (soggettività), ma derivano dall’applicabilità delle nostre categorie conoscitive (oggettività) . Ecco perchè Kant parlerà di universalità soggettiva . Come accennavamo, Kant dà 4 definizioni del bello, apparentemente in contrasto fra loro. Quattro erano i gruppi delle categorie e, se il giudizio estetico deriva in qualche misura dalle nostre facoltà conoscitive, non c’è nulla di strano se 4 sono anche le definizioni del bello. Kant compie un’argomentazione piuttosto complessa e, alla fine, ne desume la 1° definizione del bello: ‘ il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello ‘. In sostanza con questa prima definizione Kant dice che il bello è ciò che è oggetto di un piacere disinteressato .
La 2° definizione invece recita: ‘ è bello ciò che piace universalmente senza concetto ‘, ovvero è bello ciò che piace a tutti, universalmente . La 3° dice invece: ‘ la bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo ‘, ovvero è bello ciò che mostra una finalità non del tutto determinabile, priva di scopo. Infine, la 4° definizione dice che ‘ il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario ‘, ovvero che è bello ciò che è oggetto di un piacere necessario . Si possono analizzare insieme la 1°, la 2° e la 4° definizione: nella 2° e nella 4° tornano le nozioni di universalità e di oggettività, creando una sorta di contraddizione. Come fa una cosa a piacere a tutti (universalmente) e necessariamente? Ciò che piace, infatti, piace soggettivamente e accidentalmente, tant’è che sui gusti non si può discutere. In entrambe le formulazioni (la 2° e la 4°) Kant aggiunge la condizione senza concetto , facendo notare che nei giudizi di gusto non può nè deve essere in azione un concetto, altrimenti si tratterebbe di un giudizio oggettivo, di conoscenza, ovvero un giudizio determinante, e non riflettente. Il giudizio in questione è un sentimento e, come tale, non ha concetto, ma dato che tale sentimento di piacere deriva in qualche modo dall’applicazione delle facoltà conoscitive, allora sarà un piacere che, pur senza concetto, potrà aspirare ad avere una valenza universale e necessaria. Essendo un piacere sensibile e non un giudizio conoscitivo dovrà per forza essere senza concetto , non strettamente legato alle categorie. Nella 1° definizione Kant asserisce che è bello ciò che piace in modo disinteressato: anche qui ci troviamo di fronte ad un’aporia, poiché le cose non piacciono mai in modo disinteressato, ma sempre e solo nella misura in cui servono a qualcosa. Solo le cose a carattere morale o conoscitivo sono disinteressate: le cose sono così o è giusto fare così, senza che vi sia un ‘interesse’ affinché lo siano. Ma per quel che riguarda il piacere, le cose mi piacciono nella misura in cui mi servono: un cibo, per esempio, mi piace nella misura in cui mi soddisfa l’appetito. I giudizi di gusto hanno dunque sempre a che fare con l’esistenza di qualcosa, fa notare Kant: mi piace il cibo nella misura in cui esiste o in cui potrebbe esistere, proprio perchè così posso usarlo. Però, a ben pensarci, i giudizi estetici sono disinteressati, dice Kant, poichè godono non dell’esistenza di qualcosa, ma della rappresentazione dell’esistenza di qualcosa: mi piace il cibo perchè posso mangiarlo, ma se mi trovo a pancia piena di fronte ad un bel piatto ben presentato, pur non usandolo per nutrirmi, posso darne un giudizio positivo, può piacermi e posso definirlo bello. Si tratta dunque di due giudizi diversi: mi piace il cibo per mangiarlo (interessato), mi piace il cibo perchè è bello, ben presentato (disinteressato). Quando dico che mi piace il formaggio, formulo un giudizio ben diverso rispetto a quando dico che mi piace il quadro dipinto del formaggio: nel primo caso ho l’esistenza e dunque il giudizio interessato, nel secondo caso ho la rappresentazione dell’esistenza e quindi il giudizio disinteressato. Nel caso del quadro del formaggio, il giudizio è slegato dall’esistenza ed è dunque disinteressato, non mi piace solo perchè mi serve. E proprio in quanto disinteressato, sganciato dall’esistenza effettiva della cosa in questione e dall’uso che posso farne, tale giudizio può aspirare ad essere universale e necessario. Ecco perchè la 1°, la 2° e la 4° definizione del bello sono tra loro connesse. Si può notare che i 4 gruppi delle categorie erano quantità, qualità, relazione e modalità; ora, ogni definizione del bello può essere confrontata, poichè in qualche misura ne deriva, alle categorie.
La 1° definizione del bello, infatti, dice che esso è disinteressato (qualità), la 2° dice che è universale (quantità), la 4° dice che è necessario (modalità), e la relazione? Essa subentra con la 3° definizione del bello: la categoria di relazione più importante era quella di causalità ed ora entra in gioco una nuova causalità, quella di tipo finalistico. La 3° definizione, infatti, dice che una cosa è bella quando mostra una finalità senza scopo, ovvero una finalità non determinabile, che sfugge all’inquadramento in un concetto (il concetto di finalità). Proprio come nella 2° e nella 3° definizione si poneva la condizione di essere senza concetto , così adesso Kant impone pure nella 3° definizione l’assenza di concetto, in particolare del concetto di finalità. Con queste affermazioni Kant sottolinea il carattere di autonomia del giudizio estetico, il suo esulare sia dall’ambito teoretico sia dal morale: esso infatti non è nè un giudizio di verità, nè di moralità, nè teoretico nè pratico, poichè dire che una cosa è vera o è giusta è altra cosa rispetto al dire che è bella o brutta. I giudizi estetici, poi, emergono in altro modo rispetto a quelli morali e a quelli teoretici, anche se sono presentati da Kant come ponti tra il mondo fenomenico e quello noumenico. Questo aspetto è particolarmente importante e spiega perché la Critica del Giudizio è l’opera kantiana che offre più aperture al Romanticismo. Se la Critica della ragion pura è dedicata al mondo fenomenico (poichè la conoscenza legittima ha a che fare solo con il mondo fenomenico) e la Critica della ragion pura è dedicata al mondo noumenico (poichè la morale si fonda sul mondo noumenico, mettendomi in contatto con esso, di cui è ratio cognoscendi ), la Critica del Giudizio , invece, può assurgere, a pieno titolo, a vero e proprio ponte tra i due mondi, noumenico e fenomenico . Nell’esperienza estetica e in quella teleologica, infatti, è come se avessimo l’impressione che elementi del mondo noumenico filtrassero in quello fenomenico, con percorsi di remota ascendenza platonica. L’idea del bello, diceva Platone, si trova in una posizione privilegiata, poichè è più evidente a livello sensibile: è l’unica cosa in sè che riesce a filtrare nel mondo fenomenico. Pertanto l’esperienza estetica e quella teleologica sembrano farmi cogliere nel mondo empirico elementi di quello noumenico, come se filtrasse ciò che soggiace alla realtà fenomenica: una cosa, infatti, è bella nella misura in cui mostra finalità, poichè mi dà l’impressione di cogliere elementi di quella finalità che in termini conoscitivi non posso mai legittimamente predicare, in quanto esula dalle categorie. E’ quasi come se cogliessi un barlume di finalità in quel mondo fenomenico, retto dalla rigida causalità di tipo meccanicistico. Ed è proprio per questo che la Critica del Giudizio costituisce un ponte tra i due mondi (un pò di mondo noumenico, tramite il bello, filtra in quello fenomenico) e dai Romantici fu giudicata la migliore delle tre. I Romantici, infatti, rifiuteranno tutte le cautele illuministiche di Kant, secondo le quali non si può mai attingere l’essenza profonda della realtà: essi vorranno cogliere l’ essenza più intima della realtà e, per realizzare questo fine, cercheranno nella natura non già leggi meccanicistiche, bensì principi vitalistici, quasi come se la natura, sulla scia di quanto aveva detto Aristotele, fosse vivente. In Kant, però, questa tenue apertura al Romanticismo non ha valenza conoscitiva, così come non l’avevano i postulati della ragion pratica, i quali, pur mettendomi in contatto col mondo noumenico, non potevano in alcun modo fondare la conoscenza. Quanto detto per i postulati della ragion pratica vale per i giudizi estetici e teleologici: per Kant non è legittimo costruire una fisica di stampo teleologico, l’unica via possibile è quella meccanicistica di ascendenza newtoniana, checchè ne pensino i Romantici. A questo punto, Kant spiega come nasca il giudizio estetico: esso scaturisce da un libero gioco delle facoltà , ovvero da un accordo spontaneo tra l’immaginazione e l’intelletto . Con questo, Kant vuole dire che vi sono situazioni in cui abbiamo l’impressione che il nostro oggetto empirico sia costituito in maniera tale da essere del tutto adatto alle nostre facoltà conoscitive. Di fronte a certi oggetti già determinati si ha quasi l’impressione, in virtù della loro armonia, che essi si adattino in modo spontaneo al lavoro unificatorio delle nostre capacità conoscitive, come se vi fosse appunto un accordo spontaneo tra l’immaginazione e l’intelletto. Ed è proprio questo che fa nascere il giudizio estetico: a farci provare piacere di fronte ad una cosa, a farcela sembrare bella, è questa specie di spontanea corrispondenza tra oggetto e categorie. Così come proviamo piacere a stare in un ambiente nè troppo caldo nè troppo freddo perchè tale situazione è particolarmente adatta alla nostra costituzione fisica, allo stesso modo proviamo piacere nell’osservare un oggetto che ci sembra particolarmente adeguato alle nostre categorie. Proprio in questo consiste il libero gioco delle facoltà , ovvero nel rendersi conto spontaneamente che l’oggetto che abbiamo di fronte calza a pennello con le categorie che costituiscono il nostro apparato gnoseologico. Si tratta di un piacere sensibile, ma che deriva da una sorta di gioco delle nostre categorie e proprio per questo il giudizio estetico non è nè universale nè soggettivo. Certo nel giudizio estetico non c’è una vera e propria applicazione delle categorie, c’è un gioco libero, uno svago delle categorie, le quali sono in azione in modo sfumato, vi è uno spontaneo adeguamento di immaginazione ed intelletto. Naturalmente, proprio perchè non scaturisce da un’apllicazione sistematica e rigorosa, il giudizio estetico non può aspirare ad essere un giudizio teoretico, come invece riterranno lecito fare i Romantici: per loro, in fin dei conti, l’artista finirà per cogliere la verità più dello scienziato. Ora si capisce benissimo perchè a suscitare il sentimento del bello sono gli oggetti con l’apparenza di progettualità intrinseca, di armonia, dotati di forma: di fronte ad un bel paesaggio abbiamo l’impressione che sia finto perchè ci sembra che qualcuno avente le nostre stesse facoltà conoscitive l’abbia posto lì apposta per noi; si tratta però di un’impressione, non di una verità oggettiva, come crederanno i Romantici. Tuttavia il ragionamento effettuato sul sentimento estetico funziona solo per l’arte in auge all’epoca di Kant, arte che, peraltro, stava già per essere superata: l’arte che possiamo giudicare bella in base al criterio kantiano è quella di forma, tant’è che per Kant l’elemento centrale nelle opere d’arte era il disegno (simbolo di formalità, oltrechè di razionalità) e non il colore. L’arte romantica tenderà già a sfuggire al discorso kantiano in quanto sempre più legata ai colori e staccata dal disegno. Accanto al giudizio estetico di bellezza, Kant riconosce anche, come oggetto del giudizio estetico, il sublime , il concetto che segna l’apice dell’avvicinamento di Kant al Romanticismo. Se bello è ciò che deriva dalla forma, dalla progettualità intrinseca, quando invece ci troviamo di fronte ad un oggetto che sfugge alla possibilità di inquadramento da parte delle nostre facoltà conoscitive (ovvero da parte dell’intelletto), quando cioè l’oggetto oltre a sfuggire alla possibilità di essere colto dai sensi perchè è sterminato sfugge anche all’intelletto perchè è infinito e può essere apprezzato dalla sola ragione (la facoltà dell’infinito), allora abbiamo a che fare col sentimento del sublime. La sensibilità e l’intelletto si perdono, non riescono a star dietro all’oggetto, e solo la ragione, come facoltà dell’infinito, tiene duro. Kant, come per le antinomie della ragion pura, distingue tra due tipi di sublime. Il sublime matematico è quel sentimento che si prova di fronte all’infinita grandezza (ecco perchè è matematico) della natura: Kant cita due esempi, il cielo stellato che sta sopra di noi e le imponenti catene montuose. Il sublime dinamico (dal greco dunamiV , potenza ) è quel sentimento che si prova di fronte non all’infinita grandezza della natura, ma di fronte alla sua infinita potenza. Kant fa, in merito, l’esempio del mare in tempesta. Sia nel sentimento che per oggetto ha il sublime dinamico sia per quello che ha il sublime matematico, l’oggetto in questione (vuoi il mare in tempesta, vuoi il cielo stellato o le montagne) non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perchè manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell’uomo. Pare dunque che il sublime sia un sentimento negativo, ma non è così: mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso. Il dovere morale era positivo e negativo allo stesso tempo perchè ci faceva sentire inferiori per il nostro lato empirico, ma superiori per il lato razionale; allo stesso modo, il mare in tempesta ci fa sentire la nostra impotenza fenomenica, ma anche la nostra grandezza e superiorità sul piano razionale e noumenico. Il bello è finito, il sublime è infinito; il bello ha a che fare con l’intelletto, il sublime con la ragione. Contemplare il cielo stellato dà un sentimento di sublime, ci fa sentire inferiori all’infinita grandezza della natura, ma anche superiori in quanto razionali. Non può senz’altro sfuggire che vi sia una radice comune alla morale e al sentimento, cosicchè l’estetica presenta affinità con la morale: quando si parla di fini, infatti, si ha una sorta di sentimento di un finalismo della natura, di un’omogeneità tra noi e la natura, quasi come se la barriera che separa mondo fenomenico e mondo noumenico si facesse più sottile e ci permettesse di vedere un pò di più al di là del mondo fenomenico. Accanto al giudizio estetico c’è quello teleologico : esso presuppone l’attribuzione oggettiva di un finalismo a determinati oggetti di natura, una finalità con scopo, ovvero chiaramente determinabile (a differenza di quella del giudizio estetico). A proposito degli estetici, Kant specificava che si trattava di giudizi senza concetto ; nei teleologici, invece, esso è presente e altro non è che il concetto di finalità attribuibile alle cose che vediamo. La finalità è una sorta di 4° idea, poichè non è mai riempibile di esperienze sensibili. Tuttavia, Kant sembra imboccare una strada senza via d’uscita, collocandosi su un terreno a metà strada tra il meccanicismo seicentesco e settecentesco e il finalismo romantico. Infatti, Kant asserisce che le spiegazioni scientifiche sono sempre e soltanto di tipo meccanicistico, tuttavia è convinto che vi siano fenomeni fisici che non potranno mai essere totalmente risolti in termini meramente meccanicistici. Fa l’ esempio del filo d’erba e del verme: in una logica meccanicistica, dovrebbero ambedue poter essere spiegati in termini deterministici di causa-effetto, eppure una spiegazione di tal genere non sarà mai del tutto soddisfacente. Pare dunque che, se tutto è spiegabile meccanicisticamente, l’esistenza degli esseri viventi non è mai un fatto puramente meccanicistico, tende a sconfinare nel finalismo. Le spiegazioni di tipo finalistico-organicistico impereranno in età romantica con la conseguenza che si considererà come organismo anche ciò che sembra meno adatto a tali interpretazioni, ad esempio la politica (Hegel). Se per i meccanicisti alla Cartesio il tutto è in funzione delle parti come in un orologio (i cui ingranaggi possono benissimo funzionare da soli, ma senza di essi l’orologio non va avanti), per gli organicisti alla Hegel le parti sono in funzione del tutto come in un albero (in cui le radici e le foglie non possono vivere da sole, ma ciascuna può esistere solo se esiste il tutto). Ora Kant si colloca a metà strada tra le due interpretazioni, sostenendo che una spiegazione puramente meccanicistica non potrà mai soddisfare pienamente l’esistenza dell’albero e, più in generale, degli esseri viventi: ogni organismo, infatti, cerca di raggiungere uno scopo, mira ad un fine e tale finalità non è inquadrabile dalle categorie proprio perchè esse riconoscono solo la causalità meccanicistica. Sembra dunque che non ci sia via d’uscita, a meno che non si ammetta che il concetto di finalità sia un’idea e, accanto all’illegittima funzione costitutiva, le idee hanno la funzione regolativa. Ne consegue che dovrò guardare all’albero e ad ogni essere vivente come se fosse organizzato in termini finalistici. L’ammissione provvisoria del finalismo serve come guida per dare di volta in volta singole spiegazioni, le quali saranno sempre rigorosamente meccanicistiche: dovrò indagare minuziosamente e meccanicisticamente sulle varie parti del mondo biologico come se fossero organizzate finalisticamente. Dire che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni impervi e ha quattro gambe per correre più velocemente deve essere il punto di riferimento ideale per indagare correttamente quale processo meccanicistico ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli e quattro gambe. Del resto, quando pensiamo all’evoluzione dei viventi, la pensiamo sempre in termini finalistici (l’organismo si adatta a…), pur sapendo che le cose sono andate meccanicisticamente (c’è stato un errore genetico e gli individui che ne sono stati caratterizzati sono sopravvissuti, gli altri no). Guardiamo cioè ad un quadro generale di stampo finalistico per spiegare uno ad uno fatti meccanicistici.
Giancarlo Pastore
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