#Brasile: chi vuol mettere le mani su #Petrobras?

Creato il 18 giugno 2015 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Alcuni anni fa, l’ex presidente della Consob Guido Rossi dichiarò che, senza l’inchiesta Mani pulite, l’economia italiana non avrebbe mai conosciuto la svolta delle privatizzazioni. In Brasile potrebbe presto avvenire qualcosa di simile, ora che l’opposizione invoca a gran voce la cessione di Petrobras, la compagnia petrolifera statale, travolta da uno scandalo di corruzione senza precedenti che vede coinvolti, tra gli altri, molti esponenti del governo e del partito di maggioranza.

L’indagine

In sintesi, lo scandalo del «petrolão» nasce da un’inchiesta, iniziata un anno fa, che coinvolge i dirigenti della compagnia petrolifera di Stato e le principali aziende brasiliane per le costruzioni e i lavori pubblici, in riferimento alla costruzione delle infrastrutture per l’estrazione del petrolio al largo delle coste brasiliane. Le indagini si concentrano su un giro di mazzette dall’equivalente di 600 milioni d’euro che sarebbe avvenuto tra il 2004 e il 2012. Grandi aziende avrebbero foraggiato politici e partiti — in particolare il Partito dei Lavoratori, che governa ininterrottamente il Paese dal 2003 — in cambio della spartizione dei grandi appalti. Al momento risultano indagate oltre 50 persone, tra cui 36 parlamentari della maggioranza, due attuali presidenti delle camere del Congresso Nazionale, un ex presidente, e alcuni manager pubblici e imprenditori. Lo scandalo ha suscitato una fortissima ondata d’indignazione popolare. Nel mese di marzo, circa due milioni di persone sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni della presidente Dilma Rousseff, che — pur non essendo indagata — èfinita nell’occhio del ciclone per essere stata presidente del consiglio d’amministrazione dell’azienda pubblica dal 2003 al 2010. Per la gente scesa in piazza a protestare, non poteva non sapere.

Petrobras, ascesa e declino

Con un fatturato d’oltre 100 miliardi d’euro l’anno, Petrobras è una delle più grandi società al mondo, colonna portante dell’economia brasiliana nonché importante fonte d’entrate per il governo. Fondata nel 1953, è leader mondiale nell’estrazione, raffinazione, trasporto e vendita di petrolio. Figura tra le prime 15 aziende petrolifere mondiali e dispone di una tecnologia avanzata per la perforazione in acque profonde e ultra-profonde, con una produzione petrolifera media di circa 2 milioni di barili al giorno. Monopolio pubblico fino al 1997, oggi il governo federale ne controlla direttamente o indirettamente il 64% del capitale azionario.

A metà del 2008, Petrobras valeva 737 miliardi di real, l’equivalente di 200 miliardi d’euro al cambio dell’epoca. A quel tempo la compagnia viaggiava sulle ali dell’entusiasmo per la scoperta di riserve da 50 miliardi di barili nel pré-sal, lo strato formatosi oltre 100 milioni d’anni fa nelle profondità oceaniche al largo di Rio de Janeiro e Santos. Nel 2010 figurava al terzo posto nella classifica stilata dalla PFC Energy 50; nel 1999 era ventisettesima. Poi, il declino.

Nel 2013, quando i segni della crisi si stavano già palesando, la rivista Forbes stimava al 32% la probabilità che la compagnia andasse in bancarotta. A fine 2014, dell’impresa rimanevano appena 115 miliardi di real, pari a 35 miliardi d’euro al cambio attuale: un sesto in meno. I risultati finanziari relativi al 2014, presentati lo scorso mercoledì 22 aprile — con diversi mesi di ritardo, perché i revisori contabili si erano a lungo rifiutati di firmare il bilancio —, evidenziano una perdita di 6,2 miliardi di real (circa 2 miliardi d’euro) a causa del vasto sistema di corruzione su cui i giudici federali stanno indagando. Inoltre, la perdita totale rispetto al 2013 è stata di 21 miliardi di real (circa 6,7 miliardi d’euro). Dallo scorso settembre, le azioni della compagnia hanno perso il 70% del loro valore, e la società è ora tagliata fuori dal mercato del credito internazionale.

Come il Brasile ha distrutto i suoi gioielli

Com’è stato possibile? In primo luogo, per una serie d’investimenti sbagliati, come la raffineria di Pasadena (Texas), acquistata a un prezzo gonfiato e incompatibile coi parametri di mercato, o come quella d’Abreu e Lima, nel Pernambuco, nata come progetto congiunto col Venezuela e che avrebbe sinora causato già 10 miliardi di dollari di perdite al colosso brasiliano. In secondo luogo, per le scellerate politiche governative sull’energia. Anche quando il barile era a 100 dollari, il prezzo dell’energia — sia da petrolio sia elettrica — era tenuto artificialmente basso dal governo brasiliano per spingere la domanda interna. Ma, così facendo, sia Petrobras sia Eletrobras, l’altra grande compagnia statale dell’energia che per la prima volta a fine 2014 non ha distribuito dividendi, hanno operato per anni in perdita in casa loro. Ecco il paradosso: la caduta dei due gioielli di Stato, riconosciuta ormai tra le cause principali della fine del «miracolo brasiliano», è stata il frutto di scriteriate politiche di prezzi decise da quello stesso Stato che, negli anni della presidenza Lula, ha alimentato il miracolo grazie a un continuo e massiccio intervento nell’economia.

Sotto le acque, gas e petrolio

Nell’ultimo decennio il consumo d’energia in Brasile ha registrato un forte aumento, nonostante la povertà persistente e l’economia in frenata. Secondo l’International Energy Agency, nel 2012 le riserve accertate di petrolio collocano il Brasile al dodicesimo posto al mondo, con 15,3 miliardi di barili, prevalentemente offshore. Per quanto riguarda il gas naturale, in seguito anche alle recenti scoperte dei due giacimenti di Santos ed Espiritu Santo, le riserve accertate ammontano a 459 miliardi di m³. Secondo l’IEA si tratta di un potenziale di riserve di petrolio e gas naturale probabilmente altamente sottostimato, poiché potrebbero esserci ulteriori scoperte di giacimenti giant. Il Paese possiede, infatti, grandi giacimenti d’idrocarburi, in gran parte scoperti proprio negli ultimi anni e di cui i principali si trovano a Campos Basin, non lontano da Rio de Janeiro. I nuovi siti offshore dovrebbero triplicare la produzione di greggio, fino a raggiungere, secondo le stime, i sei milioni di barili al giorno nel 2035.

Quando fu annunciata la scoperta dei siti offshore, il governo prese la decisione d’aumentare le spese militari, con l’acquisto dalla Francia di quattro sottomarini nucleari, unito a un poderoso stanziamento in ricerca e sviluppo sulle tecnologie militari sofisticate. L’intenzione era di tenere le potenze concorrenti lontane dalle proprie acque, a cominciare dagli Stati Uniti, che fin dal 2008 avevano ripristinato la presenza della Quarta Flotta nel Sud Atlantico. È qui che entra in gioco l’indagine su Petrobras.

Geopolitica di una privatizzazione

Attualmente l’opposizione interna sta strumentalizzando la vicenda per aprire la strada a una rapida privatizzazione della compagnia. Ma lo fa anche grazie a un forte e pervasivo aiuto esterno, il cui obiettivo è di mettere le mani sull’azienda — e, dunque, sui giacimenti nel pré-sal — praticamente a prezzi di saldo. L’allargamento strategico di Brasilia verso l’America centrale, iniziato da Lula negli anni Duemila, ha sempre inquietato gli USA, anche in virtù dello stretto rapporto economico tra il gigante carioca e la Cina. E in questo rapporto rientra anche il futuro transito di petrolio brasiliano e venezuelano, raffinato nel già citato impianto di Pasadena, e poi trasportato in Estremo Oriente tramite il Canale tra Atlantico e Pacifico che i cinesi stanno progettando in Nicaragua. La creazione di questo blocco antagonista rappresenterebbe un danno per gli USA, i quali sembrano aver già adottato le prime contromosse. Da alcuni mesi, più o meno dacché la vicenda Petrobras è iniziata, l’acquisizione della raffineria di Pasadena è sotto indagine da parte della polizia federale brasiliana (in ottimi rapporti con l’FBI), la valuta brasiliana è sotto attacco, le agenzie di rating continuano a rivedere al ribasso le stime di Petrobras, e le azioni della società, in calo per lo scandalo, sono al centro di un’enorme speculazione con acquisti al ribasso.

Oggi la privatizzazione di Petrobras come rimedio alla corruzione è tra le priorità degli oppositori (conservatori, liberali e filo-americani) al governo di Dilma, che premono per l’uscita di scena della presidente per rendere realizzabile un simile scenario. Il tutto per la gioia dei grandi speculatori, a cominciare dall’élite imprenditoriale e bancaria brasiliana, oltreché le multinazionali del petrolio, cioè gli stessi attori che da mesi alimentano la dura campagna mediatica in atto contro l’attuale esecutivo.

La somma di questi elementi ci fornisce una possibile chiave di lettura della vicenda. Dietro lo scandalo Petrobras, la «Mani pulite» brasiliana, non c’è solo un’imponente inchiesta per corruzione, né il tentativo dell’opposizione di screditare una maggioranza al potere da più di un decennio. C’è il probabile tentativo made in USA di raddrizzare quel triangolo geopolitico tra Brasilia, Pechino e Washington in cui quest’ultima teme d’occupare presto il ruolo di vertice basso.

> Capire il Brasile. Passato, presente e futuro del gigante sudamericano

* Scritto per The Fielder


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