Brescia, sangue avvelenato dalle acciaierie. A Cremona tutto ok come sempre?

Creato il 23 dicembre 2012 da Cremonademocratica @paolozignani

L’Asl di Brescia parla chiaro, mentre l’Asl di Cremona pare in letargo. Che aspetta l’azienda sanitaria locale a fare controlli? O anche l’Asl con le nomine politiche regionali e i suoi ben pagati dirigenti diventa un altro museo cremonese? Le analisi dimostrano, come riporta l’edizione bresciana del Corriere della Sera, che il sangue di chi lavora e di chi vive nelle vicinanze di industrie che emettono sostanze pericolose è ben diverso. È avvelenato. È l’effetto dell’inquinamento legale, che considera regolare l’impianto che non supera una data soglia di Pcb, furani e diossine, tenendo conto però solo di un periodo di tempo limitato. Si parla anche di acciaierie.
E il problema è la continuità nel lungo periodo dell’inquinamento e dei suoi effetti?
Bisogna pensare che le acciaierie bresciane, già adeguatesi alla soglia d’emissione europea, siano totalmente diverse dall’acciaieria cremonese di Arvedi?
Tutti saranno pronti a scusare l’industriale in ogni caso, lo sappiamo. Con il solito ricatto dei posti lavoro la salute e l’ambiente non sono mai state prese in considerazione in modo pressante e costante.
Ma ne va della salute di operai, impiegati e cittadini che non hanno colpa. Nessuna colpa. Ma se c’è un problema a Brescia a causa delle acciaierie e fonderie, come si fa a dare per scontato che a Cremona tutto vada sempre bene? L’Asl invece di correre ad onorare Maroni al Cittanova solo come uomo di partito e non come ministro, si degnerà di intervenire?
Segue l’articolo del Corriere.

Cliccando qui si può leggere il testo originale del Corriere della Sera di giovedì, edizione bresciana.

;Il sangue dei bresciani non è come quello degli altri italiani. Nelle vene dei bresciani scorrono più diossine e pcb, usciti negli ultimi decenni dai camini delle industrie metallurgiche e finiti sui campi e quindi nei cibi. Chi lavora nelle acciaierie della città e dell’hinterland, chi vive vicino alle aziende incriminate ha più veleni in corpo di chi ha la fortuna di risiedere sui monti della Val Sabbia e nell’alto Garda, sebbene anche queste persone abbiano dosi elevate di pcb (ma non di diossine).
A stabilirlo è uno studio del servizio prevenzione dell’Asl di Brescia e dell’Istituto superiore di Sanità (pubblicato recentemente sul Giornale italiano Medicina del lavoro ).

Fotogramma/Bs

Contiene dati choc. Basta leggere le conclusioni: «La popolazione di Brescia, anche non residente nelle aree inquinate dall’impresa Caffaro, si caratterizza per concentrazioni nel siero di diossine e Pcb superiori ai valori osservati nelle popolazioni italiane non esposte». Non solo. Anche in chi vive lontano da fonti inquinanti (per l’esattezza a Tignale e Bagolino) «le concentrazioni di diossine, furani e pcb sono apparse più elevate di quelle osservate in alcuni gruppi di popolazione generale italiana», compreso chi vive nella Campania delle discariche tossiche e dell’allarme rifiuti. Nel dettaglio: gli abitanti di alto Garda e dell’alta Val Sabbia hanno concentrazioni di diossine nella norma rispetto alla media italiana, ma non è così per i pcb.
La ricerca condotta dal dottor Pietro Gino Barbieri (Asl Brescia), da Silvio Garattini (Iss) e da altri sei medici-ricercatori (Pizzoni, Festa, Abbale, Marra, Iacovella, Ingelido, Valentini, De Felip) era mirata a valutare l’esposizione cumulativa a policlorodibenzodiossine (Pcdd), policlorodibenzofurani (Pcdf) e policlorobifenili (Pcb) in lavoratori metallurgici e nella popolazione generale della provincia di Brescia.

I ricercatori hanno analizzato il sangue di 300 lavoratori metallurgici e di 20 impiegati negli uffici amministravi. Identica procedura per 46 persone che vivono vicino alle aziende che fondono rottami (ma che lavorano nel terziario) e per altre 47 che vivono a chilometri di distanza (per l’appunto Tignale e Bagolino). I risultati? «Per i lavoratori metallurgici si osservano livelli ematici di pcb più elevati di quelli osservati nella popolazione non professionalmente esposta, sebbene in modo non statisticamente significativo, fatta eccezione per alcuni congeneri – come i pcb 28, 52 e 101 – che risultano significativamente più abbondanti». In sostanza, anche i residenti «vicini» alle aziende hanno «livelli ematici di organoclorurati pressoché sovrapponibili a quelli rilevati nei professionalmente esposti». Al contrario in chi risiede lontano dalle fonti inquinanti «l’intervallo di valori osservati è più basso».
I valori variano anche da azienda ad azienda e da reparto a reparto; chi lavora in una fonderia di ghisa è meno esposto dei colleghi che lavorano nella fonderia di alluminio o in acciaieria. E gli addetti alle aree di fusione e manutenzione risultano «sovraesposti» rispetto a chi lavora nelle aree di colata e parco rottame.

Va precisato che tutti i soggetti analizzati hanno un’età media di 43 anni e nessuno di loro ha consumato cibi contenenti grassi (dove si accumulano diossine e pcb) in quantità significativamente maggiore rispetto agli altri. Ecco allora che risultano più chiare le conclusioni dello studio: «la fusione dei metalli da rottami contaminati con materiali plastici può contribuire al rilascio in ambiente di composti organoclorurati», diversi dei quali sono cancerogeni (è il caso delle tetraclorodibenzodiossine). La stessa Unione Europea, ricordano i medici, ha individuato nell’industria del ferro e dell’acciaio una delle maggiori sorgenti di emissione di diossine e furani in Europa. Brescia per decenni ha recuperato il 40% del rottame metallico circolante in Italia, creando ricchezza, migliaia di posti di lavoro e proporzionalmente una grande dose d’inquinamento, visto che fino a pochi anni fa erano quasi inesistenti leggi e tecnologie per l’abbattimento degli inquinanti.

Oggi non è più così. Basti pensare all’autoregolamentazione che si sono date le 22 principali aziende siderurgiche bresciane (riunite nel consorzio Ramet) che negli ultimi 2 anni hanno speso milioni per diminuire dell’80 per cento le emissioni di diossine (auto-imponendosi il limite di 0,1 nanogrammi per metrocubo) e installando anche un monitoraggio in continuo per facilitare i controlli degli enti. Ma i fumi usciti nei decenni passati hanno lasciato il segno. Lo certifica il sangue dei bresciani.

Pietro Gorlani20 dicembre 2012 | 16:36

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