Dio è violent.
Luisa Muraro
Edizioni Nottetempo, 2012
Ci vuole impegno per separarsi dalle pagine incandescenti di Dio è violent, il piccolo e prezioso pamphlet scritto da Luisa Muraro per le edizioni Nottetempo. Si legge e si rilegge in quanto libro difficile e complesso che va discusso con risoluzione. La scrittura della filosofa è qui un nutrimento necessario per gli occhi, per il cuore ma soprattutto per la volontà, e ho desiderato – seppure per un attimo - non avesse fine perché mi ha dato del tu fin dal primo rigo. Senza infingimenti perché ha preso per mano tutte le mie parti, soprattutto quelle oscure e apparentemente senza via d’uscita interrogandole con dedizione. Nelle settantadue fittissime paginette di Dio è violent assistiamo ad una dichiarazione appassionata ed esatta di ciò che manca alla politica istituzionale (o forse dovremmo dire alla logica spartitoria e arida che quella politica è diventata): l’efficacia e l’autorità, appunto – quelle che si misurano nell’agire amoroso di chi mette al centro il proprio desiderio e il partire da sé. Efficacia e autorità con nome di donna che si mostrano schiettamente solo in presenza di tutta la forza necessaria, e che fanno da contrappunto alla violenza sradicando ogni possibilità di avvilimento e avvitamento su noi stesse/i. Sono capacità forti anch’esse che scardinano e che, quando le desideriamo, ci rimettono al mondo. Con tutta la forza necessaria, sarà bene ripeterlo giacché è solo affidandoci alla forza simbolica necessaria che sostituiremo il disamore costante nei confronti del reale con un fecondo e adeguato agire politico. Sì. Ed è in quel si sovversivo che si deve trovare la leva adatta per decostruire, in prima istanza, le scelte al ribasso che ci vengono propinate e per riconoscere, specialmente nello sguardo femminile, un inedito modo di stare al mondo, con ordine. Muraro per prima cosa giustifica il ricorso a Dio spiegando così: Mi serve introdurlo nei ragionamenti che non lo prevedono per scavalcare certe divisioni fissate dal razionalismo borghese. Quello, per intenderci, che organizza l’enciclopedia dei saperi e lo fa in una maniera che certe volte è censura. (p. 10). Attraverso ciò, la filosofa scruta con cura un carattere di violenza sfacciatamente contemporaneo, qualità che decide di usarci e alla quale dovremmo invece opporci non prima di averne scandagliato il perimetro. A riguardo è molto chiara così come è molto netta quando si riferisce alle tre guerre in corso (Palestina Iraq e Afghanistan) dove ciò che conta sono i rapporti di forza, il resto è disordine (cfr. p. 13). Insieme alle guerre dichiarate ce ne sono altre che si aprono e si attuano in nome e per conto di interessi politici a vario titolo, esercitazioni con mascheramenti vari, violenze più o meno diffuse atte a soverchiare e sopprimere la partecipazione democratica. Perché sulla partita della cosiddetta buona convivenza si gioca purtroppo la pretesa arrogante del potere costituito di decidere sui nostri desideri. Che piaccia o no, quello stesso potere per reggersi indisturbato gioca sulla media incapacità di arrogarsi (nel senso etimologico del termine) da parte di chi guarda. Quell’arrogarsi non ha niente a che vedere con l’indignazione bensì è la capacità di dotare di forza simbolica i nostri gesti quotidiani di resistenza (parola che Muraro non utilizza ma che introduco io per chiarire a me stessa); quei gesti abbisognano di politica, di passaggio alla politica (che non aderisce al fallimento del potere costituito). Si tratta fin da subito delle radici della violenza che spesso e volentieri sono state nascoste in tutta la loro aberrante e significativa tenacia. Si tratta di accostare anzitutto, un passo dopo l’altro, la piena menzogna su cui la modernità si fonda. È una narrazione infatti che ha previsto un inganno originario (più di uno a dire la verità), divenuto poi dispositivo in mano ad un sistema ormai talmente cadaverico e marcio da non mostrare più alcun segnale di speranza. È andato, facciamocene una ragione. Le spoglie di quel sistema tuttavia, ingordo e molestatore, non hanno ancora trovato requie. Si dispongono e dispiegano invece davanti a noi tutte e tutti in un’assoluta e ingombrante contraddizione che va dipanata e detonata. Perché a fare le spese di quelle vuote vestigia siamo noi per prime/i. E si nascondono anche quelle spoglie, quei verminai della storia che tracimano di indigesta collera, travestendosi da giusti quanto obbligatori passaggi per conto di una pace, fasulla e traditrice, che non corrisponde alla realtà. Gridano, facendo finta di essere dolenti, che il potere e la politica dovrebbero essere la stessa cosa quando sappiamo bene come sia stato quel solco inaudito ad aver generato la confusione in cui ci troviamo. Ché loro, quelle spoglie già decomposte da tempo, sono le uniche a dover dettare le priorità del circostante così come delle relazioni che di quel circostante fanno parte. Questa confusione poggia su un imbroglio, dicevamo, che Muraro sostiene stia all’altezza del cosiddetto contratto sociale (corrispettivo al contratto sessuale che è stato già disaggregato dalla rivoluzione femminista) sottoscritto soprattutto da parte maschile per una convenzionale fine della barbarie. Pratiche selvagge che – come è noto – si sono mimetizzate in raffinate strategie del controllo sociale senza mai perdere il loro carattere d prevaricazione. Sappiamo bene quanto quel contratto sia falso, almeno quanto la bontà originaria o il tentativo di immaginarci perdutamente una pace preconfezionata (chissà che uno di questi giorni ci spunti la tanto agognata aureola insieme al fiore in bocca) e soprattutto come tutto ciò sia stato bellamente utilizzato da sedativo per tacere di un dato imperituro e nemmeno tanto oscuro: la violenza in tutta la sua virulenza. Violenza che infatti, secondo la filosofa, non è mai venuta meno ed è rimasta invece soffocata da una caterva di riflessioni filosofiche e morali che non centrano il punto, soprattutto nell’oggi. Violenza che ci taglia gli artigli rendendoci innocue e ammaestrate bestiole, e che ci impone un adattamento unilaterale perché emanata da un legalizzato modus operandi: quello della sopraffazione (e dell’autocompiacimento nei confronti della stessa). L’ipotesi paventata da Muraro prende così le mosse da un assunto fondamentale: A queste condizioni, se veramente non c’è altro da sapere o da fare, io dico: la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle. (p. 16). Le condizioni sarebbero quelle per cui, in nome e per conto di una civile convivenza, un essere stabilisce di accettare – più o meno supinamente – ciò che gli è offerto, o sarebbe meglio dire inferto. Per quel contratto cioè, basato su di un accordo dispari e ipocritamente tutelante, una persona fa la sua parte e aderendo, non sapendolo, (o forse volutamente continuando a ignorarlo) ad un ordine che mette in atto una sequela di indicibili e variabili atrocità, bevendosi che la cosa pubblica riguarda anche lui o lei. La proposta di Muraro è la seguente: La persona di cui sto raccontando, a questo punto, può protestare, tacere, ammalarsi. Può fare un’altra cosa, che io propongo in alternativa: può ritirare il suo tacito consenso all’ordine che regola la convivenza. E dirsi, con un atto interiore che avrà delle conseguenze pratiche: io non ci sto, non do più il mio credito alle leggi e alle autorità costituite, mi riprendo l’intera disponibilità di me e della mia forza, devo amministrarla io, poca o tanta che sia, e mi do la licenza di usarla. (pp. 18, 19). Non si chiacchiera, si badi bene, di un’antiteoria della giustizia e nemmeno della fondazione di un alternativo e parallelo ordinamento giuridico, si tratta piuttosto di una indiscutibile e autentica pratica politica che non si declina nel discredito colante dai palazzi del potere; lì c’è solo il posto vuoto di chi ormai rappresenta solo se stesso, prima che pure quel “se stesso” venisse meno; si tratta invece di riprendersi quella delega che acconsentiva all’uso della nostra volontà soggettiva e, insieme ad essa, anche la forza simbolica. Non capisco, sinceramente, come questo abbia gettato nello sconforto e nella preoccupazione molti lettori del libro di Muraro. Me lo spiego solo pensando che raccontarsi ancora storielle sulla questione della bontà e democraticità innata dell’umanità tutta forse aiuti a illudersi meglio, seppure questo comporti una parziale visione delle cose e del mondo. Come si fa a non essere d’accordo, per esempio, con l’assertiva tesi secondo cui non sarà in nostro nome che lo Stato continuerà a distorcere la buona volontà deviandola in tacito consenso per le nefandezze di cui si fa portatore? La filosofa spiega in che modo: La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. (p. 29). Questa presa d’atto impone anzitutto un discorso sensato e importante sulla forza, una riflessione pesante ma essenziale giacché c’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci. (p. 30). Forza e violenza – strettamente lette in chiave politica – per Muraro non sono la stessa cosa ma è nei loro pressi che si troverà la leva di cui abbiamo bisogno: in Dio è violent si discute della nostra forza che dovremmo custodire e della violenza che non è mai un mezzo di cui disponiamo poiché la violenza non è a nostra disposizione, piuttosto viceversa. (p. 47). L’ipotesi su cui mi interrogo è la seguente: se guardando alla forza e alla violenza come idee diverse ma sensibilmente legate, è possibile concentrarci – da quella precisa regione indicata da Muraro che ha a disposizione gli esseri viventi e le cose – sul mantenimento della forza senza farci usare dalla violenza? Siccome infatti la violenza non è a nostra disposizione ma viceversa, l’imposizione della rinuncia alla violenza porterà con sé la deprivazione anche della forza. Questi due concetti necessitano di occhi spalancati e di grande attenzione. In questo senso dobbiamo agire, senza posa. Fermarsi significherebbe infatti sostare in un crocicchio: tutt’altro, dobbiamo invece dare parola alla nostra forza, dobbiamo sistemarla per disinnescare la violenza e l’ingiustizia. Il monito è chiaro: L’azione semplicemente violenta – scrive Muraro – non esiste, perché sarebbe il puro contrario di un’azione, una distruzione di possibilità. L’azione violenta è pura disperazione; le azioni di tipo terroristico escono dalla sfera della politica ed entrano in quella della disperazione (…) Esiste invece l’azione possibile ed efficace, alleata all’energia immanente dell’essere. (pp. 70, 71). Accogliere la manifestazione della violenza, il suo mostrarsi di cui la stessa filosofa avverte poco dopo, significa dare ospitalità ad un aspetto che, se non censurato in nome di una equità che invece è arroganza del potere o di una predicazione antiviolenza che predica solo se stessa, consente uno spostamento politico cruciale: quello che si apre all’interrogazione indicata dalla stessa Muraro: E io, qui? (p. 69). Non si tratta di una domanda senza risposta, si colloca invece come spartiacque dirimente sul destino della politica che deve praticare la differenza, seguendo un desiderio di protagonismo e giustizia (cfr. p. 71). Certo si dovrebbe discutere la qualità di quel protagonismo per evitare errori, distillarlo di tutte le possibili ed esiziali contaminazioni che fanno disordine. La prima potrebbe essere quella della fame di prestigio, l’ansia narcisistica di scrollarsi di dosso ogni responsabilità per mettere a tacere l’altro da noi come fosse un gingillo trascurabile. La seconda contaminazione emerge in capo alla misura della forza, soprattutto femminile, considerata come un groviglio non da automoderare ma da mettere a frutto. Quanta forza infatti dobbiamo traversare per dirci in presenza di una giustizia che aderisca almeno vagamente ai nostri desideri? La violenza di cui parla Muraro ha così due valenze, tante quanti sono i punti di avvistamento su di essa: la prima è quella di conoscerne l’inganno, la seconda è quella di distinguerne le fondamenta: e soprattutto non si tratta della giustificazione della pratica violenta, come ho letto in giro in alcune recensioni fin troppo approssimative e che non credo abbiano inteso il libro senza pregiudizi, non si tratta neppure dell’elogio del rivendicazionismo acritico che comporterebbe un azzeramento di ciò che è stato fatto dalla politica delle donne. Siamo piuttosto in presenza di un nodo che, nominato con cura, finisce di tenerci sotto scacco e che consente di trovare le parole per dirlo: quello di un’ipotesi di giustizia che va vista al dritto e al rovescio e che prevede la disfatta di un attaccamento durato fin troppo. Questa opposizione, questa disobbedienza deve essere violenta? Io non lo credo e Muraro non lo scrive mai, neppure una volta. La violenza casomai si può impadronire solo di una soggettività che non si accorge della sua stessa cova. Ecco perché le si deve prestare la massima attenzione. La posta in gioco è invece altissima rispetto all’indipendenza simbolica nei confronti del potere costituito, e dal potere stesso (p. 66). È ancora una volta sul terreno del simbolico infatti che si gioca la partita più importante: quella della nostra autenticità, quella di una soggettività che non chiede più dov’è perché sa che dispone di sé, con tutta la forza necessaria. Che soffia sulle ceneri di quel contratto andato in pezzi parecchio tempo fa. E attraverso quella forza si orienta nel mondo, ancora una volta, per la strada più lunga. Senza paura e soprattutto priva di odio.
(alessandra pigliaru)
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