Il teatro lirico, vecchio di quasi 400 anni, nasce da una polemica tra i polifonismi rinascimentali e i fautori del ritorno alla monodia, rappresentati dalla “Camerata de’ Bardi”. Lo scopo dei nobili fiorentini che ne facevano parte era quello di riportare ai fasti di un tempo lo stile drammatico degli antichi Greci. Lo sviluppo della tematica portò, in campo musicale, alla elaborazione di uno stile recitativo in grado di cadenzare la parlata corrente ed il canto. Da questi presupposti, con lo scopo di realizzare composizioni che permettessero di “recitar cantando” sarebbe poi nato il melodramma e dunque il teatro d’opera.
Il primo vero atto politico che riguarda la lirica è del 1672 quando il Re Sole concesse l’istituzione a Parigi dell’Acadèmie Royale de Musique, un organismo stabile preposto a regolare in esclusiva la produzione teatrale e musicale in Francia.
Pur non essendo possibile un provvedimento del genere in Italia a causa dell’enorme frammentazione politica, già dagli inizi del XVII secolo era presente l’opera e numerosi teatri erano proliferati un po’ ovunque contribuendo a creare il senso dell’identità culturale e della patria che trovarono nell’opera un nuovo, vitale elemento di aggregazione.
L’opera attraversa dunque quattro secoli, tra crisi e riforme, allieta le raffinate nobiltà europee, espandendosi dal palazzo dei Medici alle corti dei Gonzaga, dagli splendori di Versailles ai saloni viennesi degli Asburgo (che realizzarono nel 1667 una stupefacente messa in scena del “Pomo d’oro” di Cesti: 5 atti, 67 scene, 48 ruoli solistici). La storia narra che l’opera deve il suo sviluppo alla necessità dei sovrani italiani del XVII secolo di manifestare la loro grandezza e magnificenza alla propria corte e agli altri sovrani[1].
Nell’opera, infatti, erano riunite varie forme d’arte e utilizzando per la sua realizzazione artisti e artigiani già al servizio dei sovrani nascevano spettacoli di grande sfarzo, ma anche di notevole dispendio economico che trovava la sua ragion d’essere non nel lucro, ma nel ritorno d’immagine e in un’affermazione politica e diplomatica del promotore.
Agli stessi scopi era anche rivolta la scelta del pubblico: quell’aristocrazia che, oltre a contribuire al prestigio dello spettacolo, avrebbe anche realizzato una vera e propria operazione pubblicitaria. Con il mutare dei tempi queste caratteristiche sarebbero rimaste proprie dell’opera, destinata ad essere un’operazione economica dai costi sproporzionati ai ricavi e quindi realizzabile solo grazie ai finanziamenti, ad eccezione del periodo in cui è stato permesso, all’interno dell’impresa teatrale, il gioco d’azzardo.
In Italia i primi a dotarsi di un teatro stabile pubblico a pagamento e ad esportare il proprio sistema “impresariale” furono i borghesi veneziani, nel 1637, con il teatro San Cassiano, seguito poco dopo, specialmente nella stagione del Carnevale, da molti altri. Alla fine del XVII secolo solamente nella Serenissima esistevano almeno una dozzina di questi palcoscenici.
In questo periodo l’opera va distinta in due “sottogeneri”: uno caratterizzato da rappresentazioni allsstito nei fastosi teatri di corte (il melodramma serio, aulico, con le grandi voci dell’epoca), l’altro, di profilo più basso, rappresentato nei palcoscenici minori, ma non per questo meno frequentati (l’opera comica).
Nell’800 l’opera diventa spettacolo popolare per eccellenza, grazie anche alla perfetta organizzazione teatrale e alla capillarità con cui i teatri invadono l’Italia, la produzione diventa straordinariamente prolifera, vitale e particolarmente feconda.
Durante questo secolo il teatro d’opera si propone in più stati come “genere musicale nazionale” in quanto, in adesione con lo spirito patriottico del Romanticismo”, è visto come il mezzo migliore per rappresentare la storia e lo spirito dei popoli.
L’annuale indice de’ teatrali spettacoli, infatti, registra nel 1785 un centinaio di teatri attivi in Italia, tra il 1821 e il 1847 un altro centinaio di palcoscenici si aggiungono a quelli già esistenti e nel 1871 i teatri presi in esame per un censimento e una ripartizione in categorie sono addirittura 940[2].
Il policentrismo politico, tipico del periodo, si riflette nel policentrismo artistico. Ogni grande città ha il suo teatro, presenza architettonica e sociale essenziale per il nucleo urbano, centro d’aggregazione per l’elite dell’epoca e punto fermo per la storia del melodramma e della comunità.
Nell’opera dei primi anni del Novecento ancora sopravvivono le novità di giovani autori, ma con il passare del tempo il cosiddetto “teatro di repertorio” schiaccia definitivamente ogni forma di creatività. Soverchiato dalla concorrenza di nuove forme d’intrattenimento come il cinema e la rivista prima, la televisione poi, il teatro d’opera si ritira nella tradizione e cerca la sua ragione di sopravvivenza nell’“evento”.
Oggi questa “cultura dell’evento” si è spostata dalla creazione di una nuova opera alla realizzazione grandiosa di un titolo del passato, all’allestimento di un grande regista, alla presenza di un solista di chiara fama, ai costumi firmati da nomi del mondo dell’alta moda.
Si rischia di puntare, insomma, sempre più spesso sull’esteriorità dello spettacolo anziché sul valore estietico, artistico e culturale dell’opera.
[1] C. Molinari, Storia del Teatro, Laterza, Bari, 2004
[2] L. Bianconi, Il teatro d’opera in Italia, Il Mulino, Bologna, 1993.