Brian De Palma: Passion
Creato il 05 agosto 2013 da I Cineuforici
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Passion
(Germ., Fr., Spa., UK 2012, 94 min., col., thriller)
La storia
Christine
(Rachel McAdams) è belle, ricca e a capo di un’agenzia pubblicitaria. Isabelle
(Noomi Rapace) è l’astro nascente dell’agenzia, assistente di Christine e
desiderosa del suo successo. Christine conscia del suo charme, seduce, in un gioco di sguardi e carezze, la giovane di
belle speranze. Troppa intimità, troppa gelosia e invidia possono scatenare l’odio.
L’indipendenza
De
Palma sta seguendo un percorso analogo a quello di Coppola: dall’euforia delle major americane al cinema indipendente.
Ha voltato le spalle all’industria, anche perché non c’è più spazio per film
adulti nel cinema hollywoodiano. Come infatti spiega in un’intervista
rilasciata ai Cahiers du Cinéma (n°
686, T.d.a.):
“Oggi,
i film a grosso budget sono degli adattamenti dei Comics, dei film per adolescenti, delle cose che non mi interessano
assolutamente. È quasi divenuto impossibile fare dei film adulti nel sistema.
[…] Ho forse voglia di passare dei mesi a Los Angeles a fare un sacco di
riunioni con della gente che non capisce niente? Certamente no! Oggi preferisco
girare in Europa, in Francia, per esempio, che ha la sua propria industria,
dove si ha una cultura, una storia e un rispetto per il cinema […]. Non
ritornerò mai più a Hollywood”.
Gli ingredienti
Con
parole così nette e chiare, non ci si può stupire se Passion, sia stato girato in Germania lontano dagli States. Brian De Palma sceglie la
pellicola di Alain Corneau, Crime d’amour
(2010), per rimaneggiarla in salsa hitchcoockiana. Ne nasce qualcosa di nuovo? Certo,
ma è anche un ritorno alle origini! Forse, è per questo che il film è passato
inosservato agli occhi dei più, nonostante si tratti in realtà, stando ai Cahiers, di una pellicola molto importante
nella filmografia del regista. Si è di fronte, secondo Stéphane Du Mesnildot a
un “De Palma al quadrato” (T.d.a):
“Perché
essere andato a cercare nell’ultimo film di Alain Corneau, l’insipido Crime d’amour, degli elementi presenti
da sempre nella sua opera? In quanto Passion
è un De Palma al quadrato o, se si vuole, ‘Brian De Palma per Brian De Palma’.
[…] Come attraverso una provetta, De Palma guarda le figure del suo cinema
ridotte a uno stato quasi elementare”.
Lo
statunitense, secondo questa tesi, riduce ai minimi termini il suo cinema,
denudandolo per mostrare gli ingredienti nella loro essenza: erotismo,
thriller, bambole bionde e brune, asetticità del luogo, Hitchcock, “estetica
del superficiale”, ma è da qui che può emergere qualcosa di buono.
Dalla
superficialità al virtuosismo: mela e Split Screen
Quasi
a testimoniare la sua lontananza dagli studios,
la pellicola inizia con un primo piano sulla mela sgranocchiata della Apple sul
retro di un portatile. Si tratta di un banalissimo Product Placement? Sì, ma anche no. “Sì” perché il buon De Palma ha
bisogno di soldi per finanziare Passion,
in quanto è lontano da Hollywood sia artisticamente sia geograficamente. “No” perché
utilizza un’immagine scadente per scatenare l’“estetica del superficiale” sia a
livello narrativo sia sul piano, per l’appunto, dell’estetica. La mela permette,
infatti, di rimanere nel tema della pubblicità, nonché dell’immagine che mostra
l’apparenza e, infine, della sopravvivenza nel mondo degli affari. Essa, insomma,
è icona del contesto in cui si situa la vicenda (affari e pubblicità), ma può
essere anche un pretesto estetico, superficiale certo, ma voluto, per
tramettere l’idea che inizialmente si vuole dare allo spettatore: banalità
situazionale.
Si
parte dal “banale estetico” per ascendere al gusto della forma: De Palma prende
i suoi famosi ingredienti e li mescola, dando un sapore hitchcockiano, grazie anche
alle musiche di Pino Donaggio (Herrmann - Hitchcock e Donaggio – De Palma), a
un film che all’origine, pare, risultava insipido (Crime d’Amour) e che nei primi minuti sembrava solo superficiale
(la mela). Ma la vera sequenza che ci permette di capire qualcosa in più dell’intento
di De Palma, ossia del fatto che la superficialità iniziale è voluta, è certamente
la scena dell’omicidio e quel favoloso Split
Screen.
Isabelle
vede a teatro la rappresentazione di Preludio
al pomeriggio di un fauno e contemporaneamente, nell’altra parte dello
schermo, si assiste all’omicidio di Christine. Chi ha ucciso Christine?
Ovviamente, il seguito della pellicola è costruito sull’inchiesta della polizia
che non crede all’alibi di Isabelle, mentre lo spettatore sa per certo che
Isabelle era a teatro e che pertanto non poteva essere nella casa della bella e
seducente dirigente. Ma come Hitchcock insegna, lo spettatore può essere
ingannato e solo alla fine può scoprire che ciò che ha visto non è null’altro
che menzogna (lo smascheramento è attuato dall’indagine parallela dell’assistente
di Isabelle, Dani). Al di là della narrazione, ciò che deve essere sottolineato
è il valore estetico dello Split Screen,
la contrapposizione fra la danza e l’omicidio, fra il candore e la violenza.
Come a teatro si finge, così anche l’alibi di Isabelle sono finti, ma mentre nel
primo si finge per gli altri, nel caso della bruna Noomi Rapace si finge per sé
stessi, per salvarsi. La contrapposizione stride, così come la storia di
Isabelle: troppo perfetta per essere vera. Una contrapposizione tale da sconvolgere
lo spettatore, che si era affidato ciecamente ai sentimenti d’Isabelle,
attribuendo il ruolo di “cattiva” alla bionda Christine.
Dallo
Split Screen in poi tutto cambia. Dall’ascesa
estetica si ridiscende, ma non a terra come nella prima parte; si ridiscende
nella scala a chiocciola nell’inconscio, nell’incubo e nella narcosi per
arrivare al surrealistica scena finale, non prima di aver scoperto la presenza
di una gemella di Christine.
Ciò
che si vede è un inganno, dall’inizio alla fine.
Mattia Giannone
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