1957. Piena Guerra Fredda, Pieno maccartismo. Un tranquillo pittore della Brooklyn post seconda guerra mondiale viene arrestato, con colpa, come spia sovietica. Un importante avvocato della stessa città viene chiamato a difenderlo prima e a organizzare un scambio di prigionieri dopo nella Berlino divisa dalla guerra fredda.
Quando si parla di Spielberg, si parla di un maestro. Questo film lo conferma. Meno noioso di Lincoln e con più senso di Warhorse (ovviamente sempre opinione di chi scrive), Bridge of Spies (il ponte di Glienicke, ponte berlinese teatro di scambi di prigionieri durante la guerra fredda) è un film solido e d'autore, con un tema preciso. Il 2015 ci ha portato in sala più volte a vedere spie: quelle esagerati e divertenti di Kingsman (indimenticabile Colin Firth dentro un vestito da sartoria mentre trucida una massa di fanatici cristiani), quelle spericolate e da brivido di Mission Impossibile 5: Rouge Nation, glamour e chic di "The man from U.N.C.L.E.", malinconiche e introspettive con l'ultimo 007 dell'era Craig. Questo film, a differenza degli altri sopra citati, è tratto da una storia vera. Nessun inseguimento mozzafiato, nessun combattimento, solo parole, giochi di potere e politica, tanta politica, infarcita da ironia tipica dei fratelli Cohen, autori dello script, che spezza e fluidifica la storia rendendola più digeribile de "Tincker, Taylor, Soldier, Spy" di qualche anno fa.
I primi cinque minuti del film sono materiale da scuola di cinema: ci presentano la spia sovietica Abel, ci mostrano la sua totale colpevolezza (così che nessun spettatore possa avere dubbi) mostrano un pedinamento per le strade di una ricostruita Brooklyn anni '50 (lontano dall'hipsterismo che regna ora) il tutto senza dialoghi. La seconda parte del film è una New York calda e accogliente. Fatta di cortesie in ufficio e cene in famiglia la sera, tocco da Spielberg inserire una situazione familiare tipica, una vita tranquilla che cerca di mascherare la paura di un fallout atomico. La terza parte è Berlino, quella del muro appena costruito, grigia, fredda e pericolosa che cerca rivalsa di fronte alle due superpotenze che se la litigano (la fotografia di Janusz Kaminski suggerisce perfettamente le caratteristiche degli ambienti). Non ha la perfezione autoriale di "Shindler's List" né l'intrattenimento di "Prova a Prendermi" ma è un film solido e bello.
Al centro della storia, non le spie del titolo, ma un avvocato: Donovan, interpretato con molta umanità da Tom Hanks, difende compagnie assicurative a New York. Prima di essere un avvocato, prima di essere un americano è un uomo, un marito che cerca di vivere in maniera retta. Non cita la Bibbia, non cita filosofi o grandi personalità, cita la costituzione ovvero le regole di uno stile di vita, quello americano, che l'America rappresenta e dovrebbe difendere. Accetta e si impegna a difendere la spia sovietica. Arriva anche a ricorrere in appello dopo la scontata e giusta condanna. Vola poi a Berlino per difendere e risollevare il nome della sua famiglia da un'America rappresentata come una creatura paurosa ma che può colpire se ferita. L'Unione Sovietica è una fredda macchina burocratica pronta a rispondere, L'Europa in balia delle due. E se, nel finale di "Munich", Spielberg ci ha regalato una splendida inquadratura di due grattacieli che ora nessuno può più vedere, non mi sembra di esagerare nel dire che il regista abbia strizzato l'occhio alla situazione politica internazionale attuale.