C’è un significato nascosto dietro ogni parola, e dietro ogni parola si cela spesso un ossimoro e un’intera storia non raccontata, una vicenda misconosciuta dai più, fatta di soprusi, di ingiustizie, di eccidi, di stragi, di falsi eroi, una verità diversa, scomoda da raccontare agli Italiani di oggi, questi Italiani pigramente distratti dalla prosopopea sulla falsa unità, nei fatti ancora di là da venire.
Ci si chiede quale storia sia nascosta dietro la parola briganti, cosa c’è dietro al semplice appellativo di otto lettere impropriamente, artatamente utilizzato da frotte di mediocri storici negli ultimi centocinquant’anni, e perché mai ancora oggi, dopo così tanto tempo, stentiamo a guardare in faccia la vera, reale identità di costoro, di quei ragazzi che a ben riflettere potremmo chiamare col giusto appellativo: Partigiani.
Occorre fuggire dalle finte ipocrisie, dalle false interpretazioni delle vicende post-unitarie: uno storico dev’essere testimone critico del passato, deve saper leggere la reale natura dei fatti indagando le pieghe del tempo; la politica deve rimanere fuori dalla sfera indagatrice del ricercatore, così com’è acclarato essere necessario in altri ambiti apparentemente più importanti. Perché dico ciò? Perché se lo storico abdica al proprio ruolo di testimone equilibrato, di attento cultore della verità, il danno generato diviene di vasta portata. Ciò detto, è appena il caso di chiederci quale sia stato il danno generato dalle frottole narrate agli Italiani dal 1861 a oggi.
Credo doverosa questa premessa prima di affrontare serenamente lo spinoso argomento; è quantomai opportuno aprire un dibattito, a oggi ancora sopito, ma che tanto fuoco cova sotto la cenere del tempo. Lo spunto mi viene dalla breve lettura di una recensione al film Li chiamarono briganti di Pasquale Squittieri, un lavoro ambientato in un meridione infiammato dalle insurrezioni popolari seguite all’annessione sabauda, in un Sud che si ribella fornendo la giustificazione alla sanguinaria repressione dell’esercito piemontese. Ve ne propongo un breve passo tratto da Wikipedia:
Il film fu penalizzato dalla critica e registrò un incasso irrisorio al botteghino (75 milioni di lire), dovuto anche all’immediato ritiro dalle sale cinematografiche ed è introvabile sia in supporto VHS che DVD. I motivi della sospensione non sono ancora chiari, sebbene i detrattori parlano di censura. Lo scrittore Lorenzo Del Boca disse al riguardo che “per ammissione unanime dei commentatori, è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di persone possibile”. Il film è visto da una parte della critica come un’agiografia di Crocco e una visione troppo sanguinaria di personaggi come Cialdini. Il Dizionario dei film a cura di Morando Morandini lo giudicò “Isterico più che epico. Un’occasione mancata di controinformazione storica.” Il critico Stefano Della Casa lo definì “Un film interessante proprio perché fuori dal tempo”. Lo scrittore Nicola Zitara si espresse positivamente, giudicandolo “un racconto epico e appassionante”.
Quando ho segnalato questo film all’amico Maurizio Madaro, che sta girando un documentario sul cosiddetto Risorgimento, avevo dimenticato che il film di Squitieri era stato girato alla fine degli anni ’90 e non sapevo che solo pochi anni fa, ovvero nel 1999, era stato ritirato dalle sale cinematografiche e reso irreperibile in qualsiasi formato. Pensateci un po’: per quale motivo è stata compiuta un’azione di questo tipo? Per quale strana ragione un film, quand’anche si trattasse realmente di un’opera revisionista, avrebbe dovuto essere censurato e reso introvabile? Per quale motivo doveva essere boicottato? E da chi? Passi l’assunto assurdo che la storia sia sempre scritta dai vincitori; è pur vero, tuttavia, che la vera storia viene a volte correttamente riscritta dai posteri, gli unici in grado di possedere quell’equilibrio che solo la lontananza temporale dagli eventi può donare, ma allora perché ai Meridionali la verità ancora non deve essere concessa? Chi si permette ancora oggi di negarci questo diritto?
Si ha paura forse di togliere il velo di muffa che ricopre argomenti scabrosi, quali i diversi eccidi perpetrati ai danni di interi villaggi trattati più alla stregua di nemici da educare, popolazioni su cui scaricare una rappresaglia cieca, più che di fratelli da riunire sotto la stessa bandiera. Capite adesso lo sconforto, la paura, il disorientamento provato dalle popolazioni afghane, piuttosto che irachene, quando finti amici perdono il senso della ragione scaricando una rabbia cieca nei confronti di cittadini inermi: uomini, donne, vecchi, bambini?
Si tratta in fin dei conti degli stessi identici orrori perpetrati nei confronti dei nostri avi, da falsi eroi cui ancora oggi vengono dedicati onori e piazze, commemorazioni e fiori. Nulla per i nostri partigiani, non una via, non una piazza, non una commemorazione, non un fiore e, quel che è peggio, non la memoria. E’ giunto il momento di riparare al danno, non perché quei ragazzi ne abbiano bisogno, siamo noi ad averne necessità, perché è grazie al loro sacrificio e alla loro memoria che potremo costruire un futuro più giusto per le generazioni a venire. Iniziamo col dare il corretto appellativo ai nostri eroi, cominciamo a scrivere “Carmine Crocco, partigiano”, e a dedicargli piazze, strade, vicoli e giardini, in ogni città d’Italia, non in onore all’odio, ma per il rispetto dovuto alla verità dei fatti, un rispetto propedeutico alla vera unione fra Italiani, sempre che la si voglia. In assenza di rispetto ogni discorso diventa vano.
E’ un concetto che i politici italiani, e quelli meridionali in particolare, dovranno tenere in debita considerazione; non venga più in mente a nessuno di allacciare alleanze con movimenti o partiti di matrice razzista, privi di una prospettiva unitaria ed equilibrata. Non ci devono essere scuse per coloro che continueranno a sacrificare le popolazioni meridionali sull’altare dei propri interessi. Lo tengano bene in mente coloro che a destra, come a sinistra guardano con favore alleanze e apparentamenti con movimenti di matrice territoriale.