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Serenade è il ciclo di songs più famoso del compositore inglese fondamentale nella mia maturazione drammaturgico musicale. Basata su composizioni poetiche di Cotton, Tennyson, Blake, Johnson, Keats (oltre a un anonimo), questo breve gioiello di Britten, scritta nel 1943, prevede per organico una tradizionale orchestra d'archi, un corno (in omaggio al virtuoso Dennis Brain) e un tenore (per la devozione che legò nella vita e nell'opera il compositore al compagno Peter Pears). Serenade è un'opera molto suggestiva e malinconica, basata sulla caducità della vita e la straniante eternità della poesia: anticipa soluzioni musicali del Britten operistico più maturo e guadagna una sua posizione privilegiata nella ricca produzione del genere, vuoi per la bellezza delle poesie, vuoi per l'altissima qualità compositiva.
Spiace, perciò, che un tenore cresciuto a pane e Britten come John Mark Ainsley deluda il suo pubblico per mancanza di volume e di carattere: da un professionista della sua statura, che si fa apprezzare senza esitazione nella discografia più ricercata, mi sarei aspettato un impatto ben diverso. Se fraseggio e timbro confermano uno stile che teme pochi confronti, lasciando trasparire la consuetudine a un repertorio ormai del tutto padroneggiato (e, in particolare, alcuni accenti del Turn of the Screw), non si può dimenticare che Serenade ha bisogno di una forza e di un'incisività che stasera sono mancate.
Né hanno aiutato il corno dello specialista croatoVladovan Ratković o l'esperienza pressoché unica nel panorama italiano della bacchetta di Bruno Bartoletti: non è necessario avere sempre nelle orecchie Serenade (per un periodo anche come suoneria del cellulare), come mi accade, per avvertire alcune una fondamentale inadeguatezza della performance: in una città che, di Benjamin Britten, al massimo conosce i Four Sea Interludes (secondo me molto meno interessanti sul piano musicale) e, in una singola occasione, il War Requiem, l'incontro con questo ciclo di songs andava sfruttato con maggiore oculatezza. Confido, tuttavia, negli applausi sinceri di un pubblico stupito e tutt'altro che freddo, chi alla novità, chi all'insperata riscoperta, per un recupero discografico (a mio avviso, oltre alla fondamentale Britten edition della Decca, notevole e insostituibile la presenza del grandissimo Robert Tear con Marriner e con Giulini).
Il concerto del teatro Massimo di Palermo, aperto col celeberrimo (straziante e splendido) Adagio per archi di Samuel Barber e arricchito dall'intermezzo Mondschein da Capriccio di Richard Strauss, si è concluso con un capolavoro della liederistica del '900: i Vier letzte Lieder (1948), sempre del compositore di Monaco. Opera di cui per me è quasi imbarazzante parlare, data una bibliografia sterminata che certo non conosco, i Quattro ultimi Lieder di Strauss sono un inno al tramonto, una medicazione alle ferite della vita. Chiunque abbia sentito almeno una volta questi canti (su testi di Hesse e von Eichendorf) e abbia un minimo di sensibilità umana ne rimane segnato.
Col suo canto liberty, Strauss tesse un capolavoro senz'altro inattuale rispetto al corso della musica nel primo Novecento, ma proprio per questo ricava un momento di sincera intimità nelle proprie sofferenze: come se scrivesse per sé, mentre in realtà si dona al mondo con un composto e acuminato canto d'addio. Con i Quattro ultimi Lieder si devono fare i conti con una dimestichezza del pubblico delle sale da concerto che rischia di appannare la bellezza di questi gioielli. E poco importa se per me Vier letzte Lieder vogliono dire Elisabeth Schwarzkopf: è, più che normale o inevitabile, giustissimo che - dopo l'ineguagliabile soprano tedesco (una delle donne più belle ed eleganti che abbiano mai calcato la scena) - si continui a frequentare Strauss come attualità e non come storia del canto.
Solo che, nel caso specifico, Kristin Lewis mi è sembrata fredda e poco coinvolgente: non mi pare che il dialogo con l'orchestra abbia funzionato fino in fondo. Nonostante il soprano (dell'Arkansas), di prorompente e femminilissima sensualità, vanti un timbro tutt'altro che banale e un buon controllo della voce, non mi ha emozionato come invece sempre accade con questo ipnotico inno di morte e di vita. Il canto è corretto, ma non evocativo, sembra esaurirsi in sé, come se mancasse in profondità. La Lewis ammalia e perfino seduce, ma la poesia dei Vier letzte Lieder è di un'altra dimensione.
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