Magazine Storia e Filosofia
In relazione al convegno di Monte Claro sul tema Atlantide e i nuraghi, vi propongo il terzo e ultimo intervento di cui riferirò in questo quotidiano. Dopo quello di Paolo Bernardini, e quello di ieri di Alfonso Stiglitz sulle "Colonne d'Ercole", oggi è il turno di Mauro Perra sull'alimentazione al tempo dei nuragici
Grano, granai e alimentazione in età nuragica
di Mauro Perra
Gli archeologi stanno scoprendo gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove ricerche archeologiche, che si avvalgono di nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e, passando ad un’economia di produzione, deve adottare strutture economiche.
La produzione umana dei beni di sussistenza, così come avviene nei nostri tempi, si impatta sull’ambiente. Le attività dell’uomo lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cominciato a pensare al nuraghe non più procedendo alla descrizione di ogni singola pietra e di ogni ceramica trovata dentro l’edificio. È cambiato il paradigma dell’archeologia e si è capito che gli archeologi non erano più quelli che, armati di piccozza, dovevano recuperare i manufatti, ma dovevano raccogliere anche più dati possibile, con nuove tecnologie. Ricordiamo che lo scavo è distruttivo, e una volta distrutto non lo si può recuperare. Bisogna quindi documentarlo nel migliore dei modi, con fotografie, disegni e analisi, altrimenti dopo non rimane più niente. Già dagli anni Settanta, in varie zone d’Europa, venivano applicate nuove tecniche che affiancavano il lavoro degli archeologi, perché si capì la connessione fra ambiente e strutture costruite.
Il dato di fondo è che l’uomo si alimenta, e per farlo deve produrre. Le sue attività hanno un impatto sull’ambiente circostante e lo trasformano.
L’alimentazione è un elemento culturale complesso e importante, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa una sorta di status symbol. Fino a pochi decenni fa c’era il pranzo dei morti: i parenti preparavano il pranzo per tutti i convenuti alla cerimonia funebre e la notte lasciavano qualcosa da mangiare per i defunti.
Se ci spostiamo nell’antichità greca, possiamo comparare la società civile con il mito dei centauri: la popolazione coltivava grano e la vite, cuoceva i cibi e beveva il vino con moderazione. I centauri erano dei mostri perché vivevano nei boschi, non producevano ciò che mangiavano, bevevano smodatamente vino e adottavano costumi sessuali che li distinguevano dalla società.
Negli anni Ottanta, sono stati fatti per la prima volta degli scavi nel sito di Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes, chiamato così perché composto da due strutture monotorre ben distinte, unite da un tratto murario. Intorno c’è il villaggio, più recente delle torri. Lo scavo è stato effettuato dall’americano Gary Webster che ha poi pubblicato alcuni libri e diversi articoli in inglese. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia passare al setaccio la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri. Questi ultimi sono frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati.
I carpologi, analizzano questi resti e riescono a determinare la specie vegetale. Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Da ciò si deduce che conoscevano la differenza fra i due tipi. In Sardegna il grano selvatico non c’era, e il grano coltivato arrivò dal vicino oriente, dove era conosciuto già dall’VIII Millennio a.C. Nell’isola, già dal Neolitico, abbiamo la coltivazione dei cereali, ossia il farricello e il farro, e ambedue provenienti dal vicino oriente grazie agli scambi commerciali fra popolazioni. Se ne deduce che la Sardegna, nel VI Millennio a.C, non era isolata e una delle prove di frequentazione è proprio l’utilizzo di piante addomesticate. Il grano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica.
Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghe, e al centro troviamo una tomba di giganti maestosa. In questi nuraghe si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, ossia nella stratigrafia del XIV a.C., nel materiale bruciato intorno ad un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
Nel nuraghe Nolza di Meana Sardo, si è utilizzata la tecnica della flottazione, e negli strati del XII a.C. sono stati trovati semi in cattive condizioni, tali da non riuscire a determinare se si tratta di grano tenero o duro.
Nel villaggio attorno al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, sul fondo dei dolii fracassati visibili al museo, cronologicamente attestati nel X a.C., sono stati trovati resti di semini carbonizzati di cereali. Migliaia di semi di grano tenero, grano duro, orzo e un semino di farro. Nel vano 12 c’erano frammenti di un materiale inizialmente scambiato per carbone, ma ad un esame più attento fatto da un carpologo francese, esperto di alimentazione nel Mediterraneo dal Neolitico fino al medioevo, si è scoperto che si trattava di pane. Si distinguono la crosta, la mollica e le bollicine del gas, piccole e regolari, della fermentazione dovuta alla cottura. Sembrerebbe pane azzimo, ossia non lievitato. Non sappiamo se il pane di Villanovaforru fosse di grano, d’orzo o di ghiande perché dall’esame al microscopio non si può rilevare.
I cereali sono derrate solide a lunga conservazione, e ciò significa che coltivando il grano e l’orzo l’uomo deve, oltre a produrli, conservarli perché la produzione deve durare tutto l’anno ed è necessario avere semi aggiuntivi da piantare per la successiva stagione produttiva. Ne consegue che occorrono luoghi e oggetti dove conservare questi materiali. All’epoca l’indice di produttività era 1:6, ossia si ottenevano 6 semi da ogni seme piantato. Questo è un dato statistico, non si può avere la certezza perché nessuno di noi è vissuto a quei tempi per poterlo dimostrare. Oggi la proporzione è enormemente cresciuta e da ogni seme piantato si ottengono centinaia di semi.
Nel nuraghe Arrubiu di Orroli abbiamo due modalità di conservazione del grano: per la comunità e per la riserva familiare. La comunità conservava tutto in un silos, come si rileva dalla piccola torre con l’interno lastricato, alta 4.7 metri e scavata all’interno del nuraghe. All’interno di questo silos non c’erano ceramiche, ne ossa di animali, ne resti vegetali carbonizzati. C’è da considerare che il nuraghe è costruito in basalto, e questo materiale ha una reazione acida con le piogge e tende a non conservare i residui organici. Esiste un altro silos nella struttura, ma non è ancora stato scavato. È stato calcolato che la capienza era di 150 Q.li di grano, o orzo, di cui almeno 25 venivano conservati per la semina della stagione successiva. Il calcolo statistico rivela che il silos poteva alimentare per un anno circa 70/100 persone. Se anche l’altra torre fosse un silos, sarebbe dimostrabile che la popolazione di quella comunità era numerosa.
Nei nuraghe abbiamo testimonianza anche della presenza di legumi (favini e piselli), a dimostrazione che l’agricoltura era ben avviata e conosciuta nelle sue variabili. A Genna Maria sono stati trovati semini carbonizzati di lenticchie.
Un’altra coltivazione specializzata è quella della vite, e possiamo affermare che i sardi nuragici conoscevano anche questa pianta. In Sardegna sono state calcolate circa 250 specie di vite selvatica, e ancora oggi possiamo vederle arrampicarsi come liane sugli alberi del bosco “ripario”, quello vicino ai fiumi. La differenza fra la vite selvatica e quella domestica è che quella selvatica presenta piante maschili e femminili. Quella maschile deve andare ad impollinare e fecondare quella femminile. Solo il 3% delle specie selvatiche presenta sia i fiori maschili che quelli femminili, per cui si impollina da sola. L’uomo, come per il grano e altre piante, ha selezionato quel 3% e ha trasformato la vite selvatica in vite coltivata. Una considerazione da fare è che i siti di coltivazione dell’uva possono essere differenti da quelli di produzione del vino. L’uva può essere prodotta anche per la consumazione diretta.
Il vino più antico lo abbiamo nel vicino oriente, sui monti Zagros iraniani, dove hanno trovato dei piccoli dolii e, in base alle analisi chimiche effettuate, si è scoperto che contenevano vino. Un frammento includeva ancora, a distanza di 6000 anni, un residuo di deposito di colore giallastro. L’analisi ha mostrato tracce di resina di pistacchio e acido tartarico, il primo componente del vino. Il pistacchio è importante perché ha una reazione chimica, se inserito nel vino, che permette di uccidere l’aceto bacter, ossia quel batterio che provoca la trasformazione del vino in aceto.
In Sardegna abbiamo la testimonianza della coltivazione della vite sempre a Duos Nuraghes, dove sono stati rinvenuti semini carbonizzati di vinacciuoli negli strati del XIV a.C.
Anche nel nuraghe Genna Maria a Villanovaforru sono stati ritrovati i vinacciuoli, ma databili al X a.C, e leggermente più piccoli di quelli precedenti. Si è scoperto che le specie di Duos Nuraghes non sono selvatiche, ma in fase avanzata di domesticazione. Il XIV a.C. è un momento nel quale l’uomo sta intervenendo sul vitigno selvatico per ottenerne la specie coltivata.
Negli anni Novanta è stato scavato il nuraghe complesso Adoni di Villanovatulo, cronologicamente attestato al XIV a.C. Negli strati del XII a.C. del villaggio intorno al nuraghe, dentro una delle capanne hanno trovato degli acini di vite coltivata. Due anni fa, a Cabras, nella zona del ponte di Brabao, nel lavoro di costruzione di una rotonda stradale, hanno fatto uno scavo che ha portato alla luce un villaggio nuragico. Le capanne, del XIII a.C., erano infossate nel sottosuolo ed erano ricoperte da elementi vegetali. In tutta la zona, che stava attorno agli stagni di Cabras, ci sono dei pozzi. Lo scavo ha mostrato tantissimo materiale perché conteneva ancora acqua, ed essendo l’ambiente poverissimo di ossigeno, quei batteri che consumano i resti vegetali non sono sopravvissuti.
Inoltre, sono stati recuperati pezzi di bastoni, strumenti di legno e migliaia di semini non carbonizzati, fra i quali era presente la vite coltivata. Insieme a questi c’erano semini di fico. Fino a qualche decennio fa, per aumentare la gradazione dello zuccherino del vino, si aggiungevano i fichi secchi nel mosto. Alla fine del processo di vinificazione si otteneva un grado alcolico più alto. Siamo dunque di fronte a genti esperte nella manipolazione delle piante. Il buono stato di conservazione dei semini ha consentito analisi dettagliate sulle specie, e si sono scoperte coltivazioni orticole e frutta. Abbiamo quindi un dato importante: i vitigni sardi precedono di almeno 3 secoli l’arrivo dei fenici in Sardegna.
In certi vasi della Sardegna si è iniziato a fare analisi simili a quelle del vaso iraniano di Zagros. In un vaso askos (una brocchetta) trovato nel nuraghe Bau Nuraxi di Triei, in uno strato datato al C14 al 1000 a.C., le analisi chimiche hanno mostrato notevoli tracce di acido tartarico, e da ciò deduciamo che conteneva vino. Per stabilire il tipo di vitigno bisogna fare alcune analisi specifiche. In età romana pare fosse importante il bovale, o muristellu. I semini di Genna Maria sono stati fatti analizzare e i primi risultati di comparazione con altri 250 vitigni, indicano il vino cannonau. I dati sono ancora incompleti e bisognerà attendere il verdetto finale.
L’uomo nuragico si alimenta quindi di cereali, legumi, coltivazioni specializzate e trasforma l’ambiente. Una equipe spagnola dell’Università Complutense di Madrid, ha effettuato delle indagini dei pollini dei diversi strati nel nuraghe Arrubiu di Orroli e in altri nuraghe del Pranu ‘e Muru fra Orroli e Nurri. Hanno prelevato dei campioni di terra e analizzato tutto al microscopio. Sappiamo che i pollini resistono per millenni, e osservandoli al microscopio, dalla forma e dal tipo, si può riconoscere la specie arborea alla quale appartengono.
Gli studiosi hanno fatto dei prelievi nel vespaio, nello strato del XIV a.C., quando si spianò il terreno per costruire il nuraghe. È lo stesso strato che ha restituito il vaso miceneo, e si è scoperto che l’80% dei pollini sono di specie arboree, ossia alberi e bosco. In particolare si trattava di querce caducifoglie (roverella) e perennifoglie (leccio), frassino, ontano, olmo e ginepro. Il 13 % erano pollini di specie erbacee, importanti perché stabiliscono l’impatto dell’uomo sull’ambiente e aiutano a stabilire il clima dell’epoca. In base ai risultati si rileva che era temperato, come accade anche in altre zone del Mediterraneo. Nello strato successivo, quello del XIII a.C., il bosco si riduce al 40 %, aumenta il cisto, sintomo di degrado del bosco, e aumentano le specie erbacee legate in particolare alle coltivazioni (nitrofite). Si tratta di specie parassite come la cicoria, il papavero, l’ortica e altre, che crescono intorno agli spazi creati dall’uomo. Ci sono anche microfossili pollinici, riconoscibili al microscopio come spore, ossia funghi. Aumenta notevolmente la presenza di funghi che nascono a seguito di situazioni di incendi, come il ketonium o la lignaria, Aumentano parecchio anche i funghi coprofiti, che nascono nel letame animale, e sono indicatori di terreno dedicato al pascolo. Assistiamo dunque ad un bosco che nel XIII a.C. diventa aperto e riporta tracce di incendio. Probabilmente i nuragici hanno incendiato il bosco ottenendo radure per poter coltivare cereali e allevare il bestiame.
Nel XII a.C., l’ultima fase della stratigrafia analizzata, il bosco si riduce al 20 %. La quercia scompare quasi totalmente. Si salva solo il bosco ripario, cioè quello che cresce vicino al fiume. Aumenta notevolmente la quantità di pollini di cereali e di funghi coprofiti legati alla presenza di letame animale. Inizia ad apparire il glomus fasciculatum, un fungo che cresce in situazioni di grave degrado dei suoli, quando sono erosi o troppo sfruttati. Questi dati sui pollini sono stati pubblicati in riviste scientifiche e in un libro del 2005 dell’Università Complutense di Madrid, pertanto sono affidabili e dobbiamo tenerne conto. Da questa analisi si può ipotizzare una situazione che vede l’uomo che trova il bosco, lo taglia e lo brucia per ottenere produzione cerealicola e allevamento, senza preoccuparsi più di tanto del degrado dell’ambiente.
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