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Bronzetti nuragici, l'arte del Ferro alla fine della civiltà nuragica
Creato il 03 luglio 2011 da PierluigimontalbanoBronzetti nuragici
di Pierluigi Montalbano
Con l’acquaiolo prosegue l’analisi dei bronzetti sardi classificati da Lilliu nel 1966. Si tratta di un personaggio (n° 60 del libro di Lilliu) che saluta con la mano destra, e nella sinistra impugna una fune da cui pende un vaso del tipo di quello in terracotta inciso trovato a Sant'Anastasia di Sardara. È alto 13.3 cm, proviene dal pozzo sacro di santa Vittoria di Serri ed è conservato al museo di Cagliari. Il recipiente ha il corpo ovale col fondo stretto e piano. Il colletto è alto e rovescio ed è diviso dal corpo con una profonda gola. Sul ventre presenta un colatoio per versare il liquido. La tunica, con l’orlo inferiore prolungato a coda, è priva di maniche. Un pugnale ad elsa gammata, sospeso nella solita fascia a tracolla, costituisce l’unica arma del personaggio. Un cordone con nodo sul davanti chiude il vestito all’altezza della vita. Occhi a mandorla, sopracciglia e naso con schema a T e bocca carnosa completano la rappresentazione.
Una figura caratteristica e facilmente riconoscibile fra quelle esposte nei musei è “Barbetta”, classificato al n° 61 di Lilliu 1966, alto 12.5 cm, proveniente da Mazzanni (Villacidro) e conservato al museo di Cagliari. Nella mano destra mostra una ciotola emisferica con una forma di ricotta sul fondo. Nella sinistra presenta un piatto con 5 pezzi di frutta secca. Una larga banda posta sul capo lascia scoperti i capelli nella parte superiore e le ciocche ricadono anche sulla fronte e sulla nuca. L’espressione del volto è differente da quella consueta dei bronzetti. Mento e naso a punta, occhi globulari e sopracciglia ad arco costituiscono un unicum fra quelli conosciuti in Sardegna.Un corto gonnellino con lembo annodato sul davanti e un semplice corpetto liscio sono gli unici elementi del vestiario. A tracolla sul braccio sinistro si nota un tascapane come quelli usati ancora oggi dai pastori sardi quando si recano in campagna.
Una statuina caratteristica, simile a qualche figura rappresentata nelle grandi statue di Monte Prama, è il “pugilatore-corridore”, classificato al n° 64 di Lilliu, alto 12 cm, proveniente da cala Gonone – Dorgali e conservato al museo di Cagliari. Il braccio destro, piegato a gomito, è sollevato e il pugno è avvolto da un guantone in cuoio che ricopre tutto l’avambraccio e presenta nella parte superiore una prominenza metallica che lo rende pericoloso se utilizzato come arma. La mano sinistra tiene uno scudo flessibile, forse in cuoio, che copre il capo. La cintura con 4 borchie, che copre il ventre, tiene un gonnellino a coda, tipico di soldati e generici, come ci ricorda anche il Lilliu nella sua descrizione. Per il resto il corpo è nudo.
Per questo bronzetto vi consiglio la lettura della mia interpretazione inedita:
Le madri nei bronzetti
di Pierluigi Montalbano
Esaminiamo le tre famose sculture che si distinguono nel panorama bronzistica sardo per la loro dote di dolcezza e per la difficoltà realizzativi che fa dei maestri artigiani nuragici i capostipite dell’arte figurativa del passato.
Possiamo certamente riferirci a queste statuine denominandole “Pietà Michelangiolesche” in quanto circa 2500 anni dopo quelle sarde, il celebre artista rinascimentale realizzò uno dei massimi capolavori dell’arte moderna: La Pietà, oggi conservata a Roma. Questa celeberrima scultura, realizzata in marmo, costituisce una replica di qualcosa che Michelangelo ebbe modo di vedere nella sua fase di apprendimento culturale, e sarebbe bello ipotizzare che quando decise di scolpire Gesù fra le braccia della Madonna, si ispirò alle rappresentazioni sarde. Così, ovviamente, non fu ma dobbiamo riconoscere che il legame è stretto tanto quanto l’accostamento fra il gusto ogivale degli edifici nuragici e l’arco gotico inventato 2500 anni dopo dagli architetti medievali per innalzare verso il cielo le nuove cattedrali e consentire alla luce di penetrare all’interno, là dove il romanico, con le sua mura spesse, necessarie per sopportare l’enorme peso delle cupole in pietra, non consentiva l’apertura di finestre importanti e causava una suggestiva oscurità. La divinità è stata spesso accostata alla luce, e raccogliersi in preghiera in luoghi bui doveva certo costituire un problema per la voglia di rinnovamento che la Chiesa cercava in quel periodo. Con l’arco gotico, e i successivi adattamenti strutturali per reggere le spinte, si aprì una nuova era architettonica, quella delle grandi chiese che sfioravano il cielo e che ancora oggi possiamo ammirare sparse in tutte le capitali europee, e non solo.
Ma ritorniamo alle nostre statue in bronzo. La prima è la n° 68 di Lilliu, 1966, alta 10 cm, proveniente da Sa Domu e S’Orcu di Urzulei, conservata al museo di Cagliari. Su uno sgabello, ancora immerso nel piombo del supporto, è rappresentata una madre col figlio in braccio. È denominata “Madre dell’Ucciso” e secondo Lilliu si tratterebbe non di un bambino ma di un adulto. Non condivido questa proposta per vari motivi. Anzitutto le dimensioni della donna sono troppo più grandi, e ciò è in forte contrasto con le capacità interpretative e realizzative dei maestri artigiani del tempo. Inoltre l’atteggiamento pare quello di una madre che raccomanda al figlio come comportarsi nel mondo degli adulti. Come se il fanciullo fosse pronto all’inserimento nella società dopo un rito di iniziazione, dimostrato dal pugnaletto a elsa gammata che porta al petto. Concordo con Lilliu che, in contraddizione con l’ipotesi precedente, afferma che si potrebbe trattare del primogenito di una dinastia tribale, un giovane aristocratico. La madre ha il capo scoperto e indossa una tunica cadente a tre balze lisce, ed è rivestita da una corta mantellina. Come affermò il Taramelli già nel 1931, se la figura maschile è un morto, potrebbe trattarsi di una “Pietà”. La figurina viene da una caverna sacra e, in questa commovente ipotesi, suggerisce un rito di devozione con la madre che offre il figlio avvolto in un sudario.
Stessa proposta arriva per la scultura n° 123, denominata “La Grazia”, alta 10 cm, ritrovata in una massa di ceneri e carboni presso la torre a feritoie a Santa Vittoria di Serri. Anche in questo caso la mia ipotesi contrasta con quella di Lilliu, che vede non una madre che istruisce con dolcezza il figlio, ma una donna che implora la grazia per il proprio figlio ammalato. Stessa tunica, stesso atteggiamento e stessa mantellina della madre n° 68, ma la pettinatura è messa in rilievo. Il figlio è privo del pugnale ma mostra ben visibile l’attributo maschile che non denota certo un momento di sofferenza o di morte apparente. Si tratta, a mio parere, di un rito di fertilità e del momento che precede l’ingresso del fanciullo nel mondo degli adulti.
Il bronzetto n° 124, denominato “Madre con bimbo in grembo”, è alto 12 cm, è conservato al museo di Cagliari e proviene da Santa Vittoria di Serri dove è stato ritrovato fra il tempio a pozzo e quello ipetrale. Anche questa madre è seduta su uno sgabello e tiene un fanciullo in braccio. Anche in questo caso la mia versione è differente rispetto all’interpretazione di Lilliu che vede un bimbo debole e malato abbandonato fra le braccia della madre. Vedrei piuttosto un figlio che, addormentato sul grembo materno, è inconsapevolmente presente ad un rito nel quale è coinvolto, e la madre, invece, partecipa attivamente confidando nella comprensione dei presenti. Le ipotesi tristi non mi trovano d’accordo e nei tre casi anziché uomini o fanciulli morti o ammalati, vedo aristocratici che si apprestano a partecipare alla vita della comunità. Simboli di vita, protetti dalla loro madre come la comunità è protetta dalla dea Madre. Perché rappresentare un momento di debolezza? Le statuine sono sempre fiere, sono rappresentazione di un mondo vivo, florido, combattivo e religioso. Stride una ipotesi mesta e pur riconoscendo a Lilliu il merito di aver descritto mirabilmente altri bronzetti, in questi ha probabilmente infuso di troppa umiltà i soggetti.
Le immagini sono tratte da Lilliu, 1966, sculture della Sardegna nuragica.
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