Magazine Cultura
C'è più di un punto di vista nel raccontare una storia.
A San Siro il 7 giugno ho assistito ad un evento popolare, tipo Giochi senza Frontiere. Uno Springsteen piacione a la Fiorello che sorride sempre per quanto siano drammatici i testi che canta, che fa cantare la gente e offre volentieri le sue canzoni al trattamento karaoke del pubblico con tanti sha na na na la la la la batti batti le manine, che corre incessantemente avanti e indietro per la pedana lungo il palco, che offre le sue mani alle mani del pubblico, che offre le sue guance ai baci delle ragazze, che fa cantare il pubblico nel suo microfono e gli fa suonare la sua chitarre, che fa cantare i bambini, che fa ballare le fans, che cammina sulla acque, che moltiplica i pani ed i pesci, che fa alzare gli storpi e resuscitare i morti, che canta tutte ma proprio tutte le canzoni del proprio repertorio, che canta canzoni che fanno accendere le lucine sugli spalti (pieni all'inverosimile fino all'anello più alto nel cielo, stipato di famiglie dai nonni ai bimbi, teen-ager che danzano ed anziani in estasi mistica), che fa alzare le braccia alla gente e le fa ondulare a destra e sinistra mentre vengono ripresi dalle telecamere e proiettati sul megaschermo sopra un palco dove la band suona quasi al buio, che sostituisce un sassofonista con cinque fiati di cui uno suo parente, che canta un pezzo meraviglioso (The Promise) all'intimità del solo pianoforte così intanto lo stupendo pubblico italiano può finalmente chiacchierare e controllare le foto sul telefonino e aggiornare FaceBook e scambiarsi i pareri sullo spettacolo.
Però ho anche visto uno Springsteen che a sessant'anni è all'apice della forma, con una voce solida e perfetta (nonostante un'acustica orribile che sembra di ascoltare le canzoni dai cessi del Meazza), che canta e suona e balla per 3 ore e 47 minuti senza un attimo di sosta (il secondo più lungo in assoluto della sua pur eccezionale carriera) e che inanella un bis a cui ancora nella mia lunga frequentazione di concerti mai avevo assistito, con uno show che riprende implacabile ed incredibile ogni volta che pare terminato di certo, con una Cadillac Ranch che fa danzare anche il fantasma di James Dean, Hungry Heart e Dancing In The Dark con un assolo di sax di dieci minuti mentra una ragazza balla con Jake Clemons (che porta alla mente quello mitico che Paul Gonsalves eseguì nel 1956 seguendo per dieci minuti la danza di una ragazza, che rilanciò definitivamente la carriera di Duke Ellington al festival jazz di Newport). Bobby Jean dedicata a Miami Steve Van Zandt e il siparietto di Bruce Springsteen - Jake La Motta pugile a k.o. che viene risvegliato dalla spugna di Little Steven per rituffarsi in una incredibile 10th Avenue Freeze-Out che quando arriva il punto che "when the Big Man joined the band…" proprio mentre sto baciando la Bagarotti e non posso non trattenere il fiato per capire cosa succederà e la band tace ed il pubblico applaude mentre proiettano le foto di Big Man ed il momento invece che mieloso si risolve in un atto commovente di dignità e di amore. Ed il concerto è finito e la band ringrazia inchinandosi al pubblico come in teatro e tu ancora non ci credi al bis che hai udito e invece il Boss rimanda tutti agli strumenti per un'ultima Glory Days che ti spiazza perché erano Glory Days nel 1984 e ti accorgi che lo sono ancora oggi che è il 2012. E non è finita, il colpo di grazia arriva con Twist & Shout, trentatreesima canzone dello show, per piegare definitivamente la schiena ai miscredenti, ma non ce n'è uno dei sessantamila di San Siro che a questo punto non creda nel Boss, e mentre i membri della E Street Band escono lui ha una parola ed una pacca sulla spalla per ognuno, come un grande coach.
Non lo so, ho paura di essere diventato troppo vecchio per i concerti negli stadi, ma quello a cui ho assistito sarà il mio insuperabile ultimo big show.
Blue Bottazzi (SUONO)
C'è una seconda recensione dello stesso show, quella di Eleonora Bagarotti:
Il tempo è spesso tiranno, cambia le cose. Nel caso di Bruce Springsteen, in concerto allo Stadio San Siro di Milano, i decenni trascorsi hanno indubbiamente portato alcuni cambiamenti. Ma qualcosa contraddistingue il Boss rendendolo unico, diverso da tutti gli altri rocker attempati. Non è un caso se il giornalista newyorkese John Strausbaugh, premiato dal New York Times per il saggio critico "Rock Til You Drop" (che fa incazzare pubblicamente personaggi come Mick Jagger e Pete Townshend, per intenderci), non lo piazza nel mucchio dei gerontofili nostalgici.
Per (ri)parlare del concerto di Bruce Springsteen allo stadio San Siro di Milano, il primo della serie trionfale di show italiani, si deve partire da lontano. Da quella primavera del rock che piace tanto ai critici nel ribadire che "Lou Reed non è più lo stesso di Transformer", "David Bowie si è fermato alla Trilogia berlinese", "Si stava meglio quando si stava peggio" ecc. ecc.
San Siro 2012 è la prova che il nostro Bruce, con i suoi capelli tinti, il mood piacione e la consapevolezza delle sue radici italiane (nel ricordo di quel primo, memorabile show del 1985 - quando l'acustica dello stadio parve di gran lunga migliore di quella pessima dell'altra sera), porta tuttora con sé tutta l'energia che gli consente di suonare 3 ore e 40 minuti senza il minimo calo di tensione.
Certo, quello di oggi è un Bruce maturo e consapevole, capace di cavalcare i suoi 62 anni e non di subirne il declivio. Si conferma un rocker unico e inarrivabile, con un innato istinto del palcoscenico e decenni di canzoni che hanno fatto (la) storia. Un Bruce che ama assai divertirsi, forte di quella spinta corale della sua "family" chiamata E Street Band - in cui, guarda caso, è entrato Jake Clemons, nipote di Clarence (rimpiazzato però a malapena da una sessione di fiati, a riprova del suo essere insostituibile).
Nel tour "Wrecking Ball", Springsteen ostenta un po' troppo il suo essere un perfetto entertainer ma quel certo atteggiamento "americano" da trascinatore di folle (anche tralasciando l'aspetto musicale), l'ha sempre tenuto. Se facciamo scorrere il nastro all'indietro, ecco affacciarsi il sombrero dei tempi di "Born in The Usa" o i balletti con mamma e zia sul palco di Genova. Insomma, qui la questione non è certo l'età anagrafica.
Ci sarà pur qualcuno che avrà da ridire sul fatto che gli album degli ultimi anni "non sono Nebraska" (di nuovo???) ma il tutto è totalmente estraneo a uno show che annovera in scaletta quasi tutte le canzoni immortali, interpretate con una voce a dir poco straordinaria, sia nella sua potenza che nelle sue capacità espressive.
Dispiace, casomai, che nei momenti più lirici al pianoforte e alla chitarra acustica - quando lo stesso Bruce chiede un po' di silenzio - il pubblico dello stadio sia incapace di un ascolto più autentico, puntando alla chiacchiera o allo scambio di foto sui telefonini. Come se, in mancanza del "ritornello sparato", l'adrenalina calasse e non valesse la pena prestare l'orecchio del cuore (e parliamo di "The promise"!?!?!)
Certo, nulla manca in un carnet che si prefigge di incendiare gli animi: non le ritmiche, non le chitarre, non canzoni come "Darkness on The Edge of Town", "Glory Days" e persino la finale "Twist and Shout", a ribadire la richiesta dei cori da stadio.
Ma nella storia di Bruce, nel suo (ammirevole) impegno politico, nel suo essere un performer con una personalità e un talento monumentali, c'è qualcosa che va oltre la sua leggenda e il nostro modo - tutto italiano - di viverlo come icona (stra)popolare. Il rock senza tempo di Bruce esplode e getta attorno a sé brandelli di poesia. E questo, come scrisse il grande Bukowski, sbeffeggia il trascorrere del tempo e tutte le sue regole: "Sono passato dall'energia della gioventù a quella della vecchiaia. Non ci sarà nessun declino. Uh Uh".
Forse Hank, senza saperlo, parlava di Bruce.
Eleonora Bagarotti (SUONO)
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