Bruno Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Bollati Boringhieri, 2011, Torino, pp.338, € 18,50
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di Francesco Sasso
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Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco: dalla presa in esame di questo gruppo di scrittori diversissimi sul piano creativo, Bruno Pischedda trae spunto per un possibile percorso di riflessione intorno al problema del “mandato sociale dell’intellettuale”. Di fronte alle rovine morali e civili del nostro Paese, essi hanno preso la parola in pubblico, spesso dialogando tra loro e con i lettori dei maggiori quotidiani. L’interesse culturale che essi suscitano deriva, tra l’altro, dal fatto che la loro riflessione è debitrice delle istanze intellettuali etico-civili sviluppatesi nel periodo post-bellico e che sono maturate nel clima della Resistenza. Come i loro padri intellettuali, quindi, avvertirono forte il bisogno di usare lo strumento letterario come pungolo critico degli aspetti degenerati della società italiana. Inoltre, come fa notare Pischedda, molte altre risultano essere le suggestioni culturali che hanno operato su di loro: dall’antropologia alla linguistica, dalla nouvelle historie di Bloch e Febvre alla psicoanalisi di Lacan, dalla semiologia di Barthes al magistero di Foucault, dalla sociologia di Adorno alle riflessioni sulla cultura di massa agli studi di McLuhan. Risulta, pertanto, inevitabile, secondo l’autore, che fra Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori ed Eco ci sia una eterogeneità di interpretazioni e di analisi degli oggetti di volta in volta interrogati. Lo studio di Pischedda tenta, allora, di rispondere a tre quesiti posti da lui stesso agli scritti polemici dei cinque autori: «cosa esattamente dicono i polemisti trascelti, in che modo lo dicono e a quale titolo».
Di particolare rilievo risulta da questo punto di vista, quindi, la posizione di Pasolini, animatore inquieto del dibattito ideologico sulle questioni civili. Si tratta, infatti, di una personalità contraddittoria, i cui scritti polemici sono, scrive Pischedda, «intrisi di demagogia semplicistica», guidati da un «profetismo tribunizio» che, fra slanci utopistici e urgenze nietzscheane, tenta di analizzare la società italiana attraverso la semiologia, l’antropologia e la sociologia. Ci si riferisce, quindi, alla riflessione pasoliniana sull’aborto, sulla natalità medicalizzata, e anche alla sua riflessione più propriamente politica. Mostrando il bisogno di autocertificazioni esistenziali («io so perché li vivo»), Pasolini non privilegia il ripensamento autocritico, ma punta al ribaltamento spettacolare, al vaticinio adoperando il linguaggio ricercato (e all’occorrenza basso) di chi si rivolge ad un uditorio colto.
Il polemista Sciascia, invece, secondo Pischedda, è incline a interrogare gli aspetti più concretamente socio-politici, assumendo di fronte ai problemi italiani un atteggiamento polemico oscillante fra un triste scetticismo e una speranza illuministica nei poteri della ragione. Il suo riconoscersi fra gli “uomini di lettere”, in opposizione agli intellettuali, e il fare del proprio otium il punto di partenza per una narrativa di taglio saggistico, sono il segnale della sua adesione ad una particolare concezione della letteratura. Sulla linea del romanzo-inchiesta, Sciascia interroga, ad esempio, l’affare Moro con gli strumenti tipici della letteratura e di una specifica arte della «prefigurazione». Egli rivendica, così, il primato assoluto della parola letteraria su ciò che letterario non è. D’altra parte, però, secondo Sciascia, sostiene Pischedda, «la stessa ipotesi che sia la letteratura a determinare l’assetto del mondo, che da una costruzione fantastica, se opportunamente “dedotta”, possa sorgere il reale, dà luogo a una duplice e altrettanto incerta linea di sviluppo» [p. 130].
A differenza dei primi due, Arbasino è più da vicino influenzato dalla tradizione comico-farsesca europea, dal leopardiano Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani e dai quaderni gramsciani. Per Arbasino, scrive Pischedda, le prerogative dell’intellettuale sono la «libertà di pensiero», l’«insofferenza per gli schemi sociali predefiniti», il «rifiuto di qualunque tutela o vincolo di parte, così da renderne ogni atto di parola occasione di rivolta e di smentita» [p. 135]. Arbasino pensa, dunque, al ruolo del letterato nella società come intervento nel dibattito pubblico in posizione antagonista rispetto al ruolo dello storico. Il letterato, insomma, va inteso come un cronista che fornisce materiale per i posteri. Il destinatario, quindi, non è più il generico lettore dei quotidiani, ma il futuro lettore e/o il lettore colto che frequenta la letteratura e la cultura europea. Le strategie retoriche utilizzate, con cui parlare di cose e non di ideologie, sono gli elenchi, il collage e l’accumulo di reperti. Di fronte alla tragedia Moro, ad esempio, il vogherese decide di mostrare la grandezza d’animo di un’umile Maria Goretti e di un’aristocratica Maria Antonietta, in limine mortis, rispetto alla fragilità d’animo del politico italiano. Un gioco funambolico e cinico in cui antropologia, economia, etologia, dottrine politiche, nouvelle histoire si compongono con estro multidisciplinare in un quadro di «illuminismo depravato».
Particolarmente atipico è il profilo intellettuale di Giovanni Testori post-conversione, il quale si erge sullo sfondo di un misticismo cristiano profetico grazie a cui, come uomo fra gli altri, tenta di mostrare «l’altezzoso cinismo» del popolo italico che «è la consueta sequenza di consumismo cieco, immoralità, violenza endemica, ipocrisia e particolarismi gretti» [p. 223]. La prassi giornalistica di Testori è volta al proselitismo, alla ri-cristianizzazione delle genti italiane. La sua attenzione è rivolta soprattutto alla cronaca quotidiana, agli eventi di cronaca nera (suicidi, crimini verso la famiglia, rapimenti, soprusi contro i bimbi ed emarginati). Risulta evidente l’influenza del Manzoni e della didattica dell’exemplum. Scrive Pischedda: «Siamo per molti versi all’opposto delle strategie concepite dagli umanisti coevi: se Pasolini, Sciascia, Arbasino fondavano il proprio dire su un complesso più o meno organico di saperi, di esperienze biografiche, di doti intuitive strettamente connesse al rango di scrittori, Testori si affida viceversa a una tradizione che lo trascende: di cui è bensì testimone agguerrito, ma senza pretese di sviluppo originale o di scoperta. Una fonte esterna, in buona sostanza, però millenaria e salvifica» [p. 229]. Il polemista novatese è interessato al recupero della concezione di arte come «esperienza di verità» che conduce alla fusione mistica di estetica e teologia. Pochi letterati come Testori si sono impegnati lungo questo cammino con un tale fervore intellettuale.
Ultima figura presa in esame in Scrittori polemisti è Umberto Eco. Ampio è l’arco dei temi presi in esame dal prestigioso docente di semiotica, ricca la scala retorica su cui si issa per poter allargare la platea degli interlocutori con cui intrattenersi nei modi di una convivialità urbana; particolari pregi di fantasia, parodia e brillantezza espositiva hanno gli scritti giornalistici, secondo Pischedda. I suoi pezzi polemici sono «diagnosi sempre suscettibili di revoca ai frequentatori dell’oggi, non documenti veridici a profitto di storici futuri» [p. 269]. Semiologo attento ai modi e ai contenuti della comunicazione di massa, Eco sembra «ripristinare il primato dello specialista in humanae litterae». Egli si pone come intellettuale attrezzato a connettere i vari rami del sapere e a costruire strada facendo i propri strumenti di giudizio. Questa attitudine gli permette di interpretare con spirito oggettivo gli eventi politici e culturali del nostro tempo attraverso gli strumenti retorici dell’ironia, della dimostrazione per assurdo, con uno stile colloquiale e “ecumenico”.
Per concludere, in questi anni che sembrano suggerire un insterilirsi della capacità intellettuale di interpretare e di intervenire sul reale, Bruno Pischedda ci rende familiari cinque polemisti che hanno operato prevalentemente tra la fine degli anni Sessanta e i primi Ottanta del secolo scorso, con l’eccezione di Arbasino e Eco ancora attivi. E la familiarità qui è invito ad un pronto recupero del prestigio del ceto umanistio italiano.
f.s.
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Recesione pubblicata su NARRAZIONI. Rivista quadrimestrale di autori, libri ed eterotopie (febbraio-maggio 2012). Vol. 1, a cura di Vito Santoro, Milano, Ledizioni editore, 2012
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