E’ chiaro che l’orrore dei vari crimini perpetrati dal Dottore riporti alla mente altri orrori, soprattutto quelli nazisti, e la sua figura non possa non ricordare quella del celebre Mengele che compì un vero genocidio di ebrei con la scusa della ricerca medica. J. Lee Thompson, nell’ultima fase della sua carriera, mostrava una certa propensione per la violenza e le scene forti, basti pensare al poco celebre Soggetti proibiti, sempre col fidato Bronson, dove si metteva in scena una storia di pedofilia e omicidi a sfondo poliziesco. L’amico Eugenio parlandomi di Michael Winner mi diceva che “era regista più di mannaja che di fioretto”, ma, ancor di più, si può far calzare il paragone proprio a Thompson che era passato da un sofisticato Il promontorio della paura negli anni 60 allo slasher di Compleanno di sangue con spiedini mortali e tette in bella vista, ma soprattutto ad una serie di film giustizialisti che non andavano molto per il sottile in nefandezze o scene forti. Un esempio su tutti: lo stupratore nudo di 10 minuti a mezzanotte. Purtroppo il problema è che Professione giustiziere non appassiona mai, troppo stereotipato in clichè poco interessanti a partire dal suo personaggio principale, e senza avere il coraggio di colorare la vicenda di tragedia come succedeva nei gloriosi Winner anni 70. A turbare sono soprattutto le scene di tortura, anche solo raccontate attraverso un televisore dalle vittime del Dottore, con un tale assortimento di nefandezze (una testa cucita nello stomaco di una donna, vetri fatti mangiare, stupri con bottiglie) da fare invidia ad un qualsiasi De Sade. Thompson calca molto la mano sulle brutalità fin dai primi minuti quando assistiamo alla morte del giornalista amico del protagonista, ucciso a scariche di corrente elettrica con vistose perdite di sangue.
Thompson gira, come già detto, in modo più che egregio e regala al pubblico un buon inseguimento di auto che ricorda per certi versi quello finale del Cobra di Cosmatos. Produce la Cannon e nei credits possiamo trovare, non come attrice, l’amore della vita di Bronson, quella bella e fragile Jill Ireland che morendo per un cancro si porterà via la luce negli occhi di Charlie. Il titolo inglese The evil that men do è migliore e sembra derivi dalla frase del Giulio Cesare di Shakespeare “The evil that men do lives after them; The good is often interred with their bones”. Peccato che questo Professione giustiziere non riesca davvero a convincere, pecchi di facilonerie narrative (l’uso di un registratore nel prologo) e sprechi la, potenzialmente, bella sequenza finale, con le vittime ridotte a freak che fanno a pezzi il Dottore, in uno sviluppo troppo sciatto e frettoloso, come se Bronson e Thompson volessero tornarsene a casa. Come ho detto una visione la merita, ma nulla di più. Noi invece ci risentiamo la settimana prossima su queste emittenti con altre pellicole da dissotterrare…
Frase di lancio:
“I criminali devono rispondere alla legge, il più crudele carnefice al mondo dovrà rispondere a Bronson”
Andrea Lanza