In una vecchia barzelletta ambientata nello scompartimento di un treno un viaggiatore attribuisce tutti i mali del mondo agli ebrei, dal deicidio alla speculazione. Un altro ribatte: beh mica saranno responsabili anche dell’affondamento del Titanic? E quello: Perché Iceberg non le pare un cognome abbastanza ebraico?
Oggi alla sparatoria nel museo ebraico di Bruxelles – il Belgio vanta una certa tradizione in materia: attentati simili c’erano già stati ad Anversa nel 1980 (un morto e 20 feriti), nel 1981 (autobomba che causò 3 morti) e a Bruxelles il 18 settembre 1982 quando, davanti alla sinagoga di Rue de la Regence, un uomo armato di mitraglietta aprì il fuoco sui fedeli, causando quattro feriti – si è deciso di dare un’interpretazione molto puntuale, quella di un’intimidazione contro l’Europa degli Stati e dei popoli, dove tutte le credenze, malgrado l’improvvido riconoscimento delle comuni radici cristiane, hanno pari diritto di cittadinanza ed esercizio. Sappiamo bene che non è così, sappiamo bene che l’unico credo egemonico è la fede nell’euro, l’unica religione incontrastata è quella del profitto, le uniche liturgie officiate con devozione cieca e assoluta sono le transazioni bancarie.
E l’attentato ha la marca di sempre, che non ha nemmeno bisogno di essere aggiornata in nome del pensiero globale: parla un linguaggio universale, la lingua condivisa dell’antisemitismo, si alimenti degli stessi stereotipi sempre gli stessi, trovando ospitalità che ormai non sorprendono più, che tanto la ricerca del colpevole, del capro espiatorio si reca sempre agli stessi indirizzi, minoranze poco disposte alla rinuncia della propria identità, meno inclini all’affiliazione, poco dediti al conformismo, all’ubbidienza, all’abiura di fede, tradizioni, perfino inclinazioni sessuali. E se il momento storico è segnato da una crisi economica è inevitabile rispolverare la rassicurante paccottiglia dei Savi di Sion, i confortanti stereotipi del complotto demo giudaico massonico, l’invalsa “somatica” dello strozzino col naso adunco e le mani rapaci, che un tempo teneva il banco dei pegni oggi le banche d’affari e tra interessi, talleri e derivati finisce, sempre lui, per “separare gli sciocchi dai loro quattrini”. Certo agli sciocchi in particolare rincuora sapere di essere vittime di una macchinazione di una “etnia” destinata per codice genetico al parassitismo, all’intrigo, al calcolo, allo sfruttamento, all’avidità, ben rappresentata da testimonial di successo, letterari e non, da Shylock a Victor Rothschild, cui si deve una folgorante definizione del mestiere di banchiere, come di chi sposta la moneta da dove sta a dove è necessaria.
Va a raccontare a chi rivendica l’ignoranza come una virtù popolare da nutrire e mantenere con tenace pervicacia per legittimare aberrazioni e disuguaglianze, razzismo e xenofobia: Jaruzelski per giustificare la repressione dell’opposizione operaia e sindacale, la congiura dei medici di Stalin, Grillo o il leader dei forconi, ma anche decine e decine di più o meno illustri “opinionisti” da Giornale o da bar – va a raccontare loro che il rapporto tra finanza e comunità ebraica ha radici storiche che sarebbe bene conoscere, almeno quanto sarebbe opportuno approfondire la relazione tra soldi imperi finanziari speculazioni e Vaticano, Ior, Banche rurali e artigiane al suo accertato servizio.
La dinastia Rothschild, per fare un esempio, faceva parte di una cinquantina di famiglie insediatesi a Francoforte sotto la protezione dell’imperatore. Protezione non certo elargita per misericordia: esenti com’erano dalla proibizione di percepire o pagare interessi sulle transazioni monetarie, gli ebrei animavano una ricca corrente di traffici, interdetti ai protestanti come ai cattolici, unici mercanti ammessi – e non certo per generosità, al tempio del profitto e delle entrate fiscali.
Questo privilegio veniva pagato con periodiche e sadiche persecuzioni, sanguinosi pogrom e occasionali confische e sequestri dei beni, che non esentarono nemmeno i Rothschild. Perché – anche questo appartiene tanto alla tradizione da costituire uno stereotipo – i potenti praticano la slealtà e il tradimento perfino nei confronti di chi è loro utile per dimostrare simbolicamente forza e dominio, così decine di banchieri ebrei sono finiti nei campi di concentramento, le loro ricchezze nei caveau di istituti di credito multi religiosi dell’opulenta e spietata Svizzera, che le ha incamerate inesorabilmente.
Ma non bastavano i cretini, in tempi di eclissi delle idee vincono facile certe distorsioni ideologiche: antisionismo, antimperialismo, fondamentalismo islamico, fondamentalismo cattolico, antiamericanismo, neonazismo e neofascismo, negazionismo, complottismo post 11 settembre, nemici acerrimi a parole, familiarizzano riconoscendosi in un linguaggio comune, sempre lo stesso, che trova infinito spazio e risonanza soprattutto nella rete, grazie al pudico anonimato, e che si avvale dell’ossessiva reiterazione dei più vieti ma mai abbastanza logori luoghi comuni.
Questo è un argomento che ferisce chi lo tocca, da anni italiani casualmente ebrei, tedeschi o polacchi sopravvissuti o figli di deportati, francesi o belgi colpiti da attentati come quello di ieri a Bruxelles, vengono richiesti di pubbliche abiure non per il comportamento dei loro governi, nemmeno per le colpe del loro continente di appartenenza e per il golpe che sta effettuando contro le democrazie, ma per i misfatti di un governo loro estraneo, quello israeliano, del quale, geneticamente, condividerebbero responsabilità e crimini. Da anni si sente ripetere un altro slogan, che contraddice storia e civiltà: gli israeliani dovrebbero essere l’unico popolo ad aver appreso dal loro passato la lezione di non infliggere ad altri il torto subito. Unico popolo – forse per questo eletto? – a far tesoro della condizione di vittime per non diventare carnefici, se noi respingiamo immigrati, subiamo fascisti, li votiamo perfino.
E come se non bastasse tocca anche pentirsi dei Rothschild, dei Goldman Sachs, ma non dei Marcinkus, per carità, non dei Monti, non dei Draghi, non della Lagarde, tocca vergognarsi della speculazione semita ma non di quella dei Paschi di Siena. Come se il capitalismo avesse una fede, come se lo sfruttamento avesse un dio. Che poi invece ce l’ha si chiama profitto e fa sacrifici umani.