Claudia Santonocito 4 dicembre 2013
Ho il solito problema della lettrice incallita che si ripresenta ogni volta che finisco un libro: ho sempre qualcosa di cui lamentarmi, anche nel caso di un’opera scritta più di un secolo fa. Stavolta il mio problema che poi non è così grave, lo ammetto, è da imputare a Charles-Louis Philippe e al suo Bubu de Montparnasse (letto nel bel volume recentemente pubblicato da Edizioni Libreria Croce, con uno scritto di André Gide e la traduzione di Fabio Libasci). Il mio malessere è causato dal titolo, che in realtà mi piace davvero tanto, perché dopo aver finito il romanzo ho deciso che non sono d’accordo con la scelta dell’autore. Non me ne voglia il povero Philippe ma siamo sinceri, il personaggio di Bubu anche se ha il nome in copertina è paradossalmente un Bubu settete, c’è e non c’è, come il giochino con le mani che si fa con i bambini: compare all’inizio per poi sparire fino alla fine. A parte la “simpatica” battuta (di pessimo gusto), il libro è un interessante e breve scorcio di una Parigi del 1900, delle sue strade e dei suoi vizi, dove per vizio intendiamo il meretricio e tutto il mondo che gli ruota attorno. Berthe è una prostituta, messa sulla strada da Bubu, il suo amante e protettore, che non ha troppa voglia di lavorare (Bubu è un soprannome da uomo – per chi ci fosse rimasto male, è successo anche a me, quindi non preoccupatevi!). Berthe nelle sue “virtuose” soste da marciapiede incontra Pierre, un giovane provinciale trasferitosi a Parigi per lavoro. Pierre rimane affascinato dalla graziosa Berthe e da buon ingenuo spera che, lasciandosi abbindolare dalle sue parole romantiche, la ragazza appenda al chiodo la vita da dissoluta e metta la testa a posto. Ma Berthe – come da copione – preferisce la rudezza di Bubu. Niente da fare per il povero Pierre che resta con un pugno di mosche in mano. Del resto alle donne sono sempre piaciuti i bastardi, un po’ maledetti. Completa il quadretto amoroso l’arrivo in scena della sifilide, malattia nota per la sua trasmissione sessuale che Berthe, senza troppi scrupoli, elargisce a piene mani ai suoi clienti.
La trama letta nel 2013 non è un gran capolavoro di novità, ma è necessario contestualizzarla in un momento storico e letterario ben preciso. Philippe ha infatti il merito di mettere il lettore nella possibilità di evocare, anche un secolo dopo, le atmosfere parigine di quegl’anni, con i suoi boulevard e i suoi bar pieni di gente. Ma non solo questo, in poche pagine è riuscito a tratteggiare la miseria umana, la violenza, lo squallore, la tristezza della povertà, la vigliaccheria, il sudiciume. Un sudiciume che fa quasi storcere il naso, come a sentirne il puzzo. E poi la malattia, la mancanza totale di paura per la malattia, come se fosse normale che i poveri possano morire con più facilità. Autore squattrinato ma raffinato, Philippe si caratterizza per una scrittura originale e mai noiosa, adatta ad un pubblico misto, ma al lettore odierno consiglierei di approcciarsi al romanzo pensando che alla sua uscita suscitò scandalo, senza questo piccolo accorgimento non riuscireste ad apprezzarlo. Probabilmente il tutto vi risulterà più interessante se leggete lo scritto di André Gide sulla morte di Philippe che trovate in questa edizione di Bubu de Montparnasse, pagine che raccontano con tenerezza amicale, quasi una sorta di diario, l’addio allo scrittore da parte degli amici in quella realtà contadina a cui apparteneva e di cui non si era mai vergognato. Una chicca. Da questo libro è stato tratto il film di Mauro Bolognini Bubù (1971) con un giovanissimo Massimo Ranieri nei panni di Pierre e una giovanissima e sensuale Ottavia Piccolo nelle vesti succinte di Berthe, ma questa è un’altra storia.