Oggi sul Corriere della Sera un articolo riprende un dossier di Cittadinanzattiva, una ONG di consumatori che opera in tutta Europa, sui prezzi e le tariffe dell’acqua in Italia. Prima di passare all’analisi dei dati, è opportuno fare una dovuta precisazione: nel giugno del 2011 in Italia si organizzò un referendum. Dei quattro quesiti che chiamarono gli elettori alle urne, due vertevano sulla gestione del sistema idrico e i comitati per il Sì ribattezzarono presto la loro posizione pro-abrogazione come in favore «dell’acqua pubblica».
Promossi da una rete civica e presto fatti propri dalle formazioni politiche di centrosinistra, in realtà i suddetti quesiti non si riferivano affatto alla privatizzazione dell’acqua – che era e rimane un bene pubblico – ma alla liberalizzazione del servizio di gestione del sistema idrico, da aprire in regime di concorrenza agli investitori privati. Per spiegare come all’epoca la disinformazione – parte di comprensibili calcoli di ritorni elettorali – ebbe tuttavia la meglio e portò i “Sì” alla vittoria, è utile citare un pezzo firmato da Francesco Costa, apparso lo scorso aprile su IL, il magazine culturale del Sole 24 Ore.
Scrive Costa:
Il primo quesito abrogò una norma che nel giro di pochi mesi avrebbe obbligato gli enti locali a fare delle gare aperte a soggetti pubblici, privati o misti per decidere a chi affidare in concessione i servizi idrici. Abrogato l’obbligo, tutto è rimasto come prima: la grande maggioranza delle società che gestiscono l’acqua è pubblica, gli enti locali ne sono contemporaneamente proprietari, gestori e controllori. La vicenda del secondo quesito è più intricata: abrogò un comma secondo cui la tariffa per l’erogazione dell’acqua fosse calcolata prevedendo la «remunerazione del capitale investito dal gestore» fino a un massimo del 7%, quota che comprendeva sia i profitti – «non si fanno profitti sull’acqua», dissero i comitati – che gli oneri finanziari derivanti da eventuali prestiti, nonché altri costi non scaricabili sulla tariffa. Politicamente fu per molti una questione impegnativa. Esempio: quel comma fu introdotto nel 1996 dall’allora ministro Di Pietro. Lo stesso Di Pietro che nel 2011 fu tra i maggiori sostenitori dei referendum abrogativi. Altro esempio: dopo i referendum un altro grande sostenitore del Sì, Nichi Vendola, disse che l’abrogazione non avrebbe abbassato la tariffa perché era «indispensabile fare i conti con la realtà»: quel 7% era necessario per coprire il costo dei debiti contratti dalle aziende.
In sostanza, Vendola ammise sottovoce – guardandosi bene dal farlo a urne aperte – che la “battaglia per l’acqua” dei mesi precedenti, fatta di flash mob, colorate manifestazioni e proclami accorati, era stata un bluff. Non ci avesse pensato lui stesso, sarebbe bastato guardare a ciò che è successo poco dopo. Un imbarazzante impasse sulle tariffe da applicare (con o senza il 7% di remunerazione) si è chiuso con la decisione dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas – che nel frattempo ha assunto il controllo della materia – di varare, all’inizio di quest’anno, un metodo tariffario retroattivo valido anche per il 2012.
Tutto questo bailamme, si obietterà, sarà servito a migliorare le condizioni del sistema idrico italiano – o perlomeno a mantenerle a un buon livello. Nemmeno per sogno: nel report di Cittadinanzattiva si sottolinea come i costi dell’acqua siano esplosi negli ultimi anni, con rincari fino al 200% al sud. Parte dei rincari è ascrivibile a interventi sul territorio programmati dalle partecipate statali, che in teoria dovrebbero migliorare un sistema depurativo ancora del tutto insufficiente. Poi, dicono i dati, c’è una rete di distribuzione che perde il 33% dell’acqua che dovrebbe trasportare – anche qui, con picchi del 70% nel centro-meridione. E tutto per non liberalizzare il servizio e aprirlo alla concorrenza e al mercato, entità maligna che – secondo alcuni – vuole bersi la nostra acqua.
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