Una simulazione numerica realizzata da un ricercatore della NASA mostra come le particelle di materia oscura che si trovano in collisione all’interno del campo gravitazionale di un buco nero supermassiccio potrebbero produrre una intensa emissione di radiazione gamma potenzialmente osservabile. Rivelare questa radiazione di alta energia potrebbe fornire agli astronomi un nuovo strumento per comprendere sia la fisica dei buchi neri che la natura della materia oscura.
«Se da un lato non abbiamo alcuna idea di che cosa è fatta la materia oscura, dall’altro sappiamo che essa interagisce con la materia ordinaria mediante effetti gravitazionali, il che vuol dire che essa deve accumularsi attorno ai buchi neri supermassicci», spiega Jersey Schnittman, un astrofisico della NASA e autore dello studio. «La natura ci dice che un buco nero non solo concentra le particelle di materia oscura, ma la sua intensa attrazione gravitazionale amplifica l’energia e il numero di collisioni che possono produrre i raggi gamma».
Una nuova simulazione numerica mostra come le particelle di materia oscura che orbitano attorno a un buco nero possano produrre un segnale caratteristico visibile sotto forma di raggi gamma. L’immagine illustra le traiettorie delle particelle in cui quelle di color rosso sono quelle attratte maggiormente dalla gravità del buco nero e sono più vicine al suo orizzonte degli eventi (la sfera color nero al centro quasi nascosta dalle traiettorie delle particelle). L’ergosfera, dove tutta la materia e la radiazione seguono la rotazione del buco nero, è mostrata in verde acqua. Il buco nero viene visto lungo il suo equatore e ruota da sinistra a destra. Credit: NASA Goddard’s Space Flight Center Scientific Visualization Studio e NASA Goddard/Jeremy Schnittman
Nel suo articolo, pubblicato su Astrophysical Journal, Schnittman descrive i risultati di una simulazione numerica che ha sviluppato di recente per tracciare le orbite di centinaia di milioni di particelle di materia oscura, così come per analizzare i raggi gamma prodotti quando esse collidono in prossimità di un buco nero. Egli ha trovato che alcuni raggi gamma sfuggono con energie ben oltre superiori a quelle consentite dai limiti teorici ottenuti da lavori precedenti.
In questa simulazione, la materia oscura assume la forma di particelle massive che interagiscono debolmente, o WIMP (Weakly Interacting Massive Particles), che sono considerate le particelle maggiormente candidate. Le collisioni tra queste particelle determinano una reciproca annichilazione e generano raggi gamma, la forma di luce più energetica che conosciamo. Ma queste interazioni sono estremamente rare se avvengono in condizioni normali.
Nel corso degli ultimi anni, i teorici hanno preso in considerazione la possibilità che i buchi neri possano fungere come una sorta di “concentratori” di materia oscura, dove le particelle WIMP vengono forzate al punto da incrementare il ritmo e le energie di collisione. Questo concetto è una variante del cosiddetto processo di Penrose, l’astrofisico britannico che fu il primo ad identificare nel 1969 un possibile meccanismo per estrarre energia da un buco nero ruotante. In altre parole, più velocemente ruota un buco nero e maggiore sarà l’energia potenziale che può essere ricavata.
In questo processo, tutta l’azione avviene al di fuori dell’orizzonte degli eventi, quella superficie immaginaria entro la quale nulla può sfuggire, localizzata in una regione appiattita e allungata chiamata ergosfera. All’interno dell’ergosera, la rotazione del buco nero trascina lo spaziotempo e ogni cosa che vi si trova dentro è costretta a muoversi nella stessa direzione e con una velocità prossima a quella della luce. Questo movimento globale crea una sorta di “laboratorio naturale” molto più estremo ed efficiente di quanto non sia possibile realizzare qui sulla Terra.
In altre parole, più velocemente ruota il buco nero e più grande diviene la sua ergosfera, il che permette che le collisioni di alta energia avvengano ad una distanza maggiore dall’orizzonte degli eventi. Ciò fa sì che la probabilità che qualsiasi fotone gamma prodotto dai processi di collisione possa sfuggire al buco nero aumenti. “Il massimo dell’energia emessa dal processo di collisione secondo la versione di Penrose è circa il 30% superiore rispetto a quella iniziale”, dice Schnittman. “In più, solo una minima porzione dei raggi gamma sono in grado di lasciare l’ergosera”. Dunque, questi risultati suggeriscono che potrebbe non essere mai rivelata una chiara evidenza del processo di Penrose da un buco nero supermassiccio.
Ad ogni modo, gli studi precedenti si sono basati su una serie di assunzioni semplificate sulla posizione relativa alla produzione delle collisioni più energetiche. Andare oltre questo lavoro pionieristico significa sviluppare un modello numerico più completo, che permette di tracciare un numero elevato di particelle man mano che si addensano nelle vicinanze di un buco nero ruotante e interagiscono fra loro. La simulazione costruita da Schnittman fa proprio questo. Tracciando le posizioni e le proprietà di centinaia di milioni di particelle distribuite in maniera del tutto casuale, mentre esse collidono in prossimità di un buco nero, questo modello permette di rivelare quei processi che producono raggi gamma con energie più elevate, così come permette di ottenere una migliore statistica sulla probabilità di fuga e di rivelazione delle stesse particelle, più di quanto non sia stato immaginato prima. In questo modo, l’autore ha potuto identificare delle traiettorie che prima erano rimaste sconosciute dove le collisioni tra le particelle producono raggi gamma con un valore massimo dell’energia 14 volte maggiore rispetto al valore iniziale.
L’immagine mostra il segnale associato ai raggi gamma così come è stato ottenuto dalla simulazione al computer a seguito dell’annichilazione delle particelle di materia oscura. I colori più brillanti indicano energie più elevate mentre i raggi gamma più energetici hanno origine dal punto centrale della regione a forma di ‘gobba crescente’ (a sinistra), che è più vicina all’equatore e all’orizzonte degli eventi del buco nero. I raggi gamma che hanno la probabilità maggiore di sfuggire sono prodotti sul lato del buco nero che ruota verso l’osservatore. Questa emissione asimmetrica è tipica di un buco nero ruotante. Credit: NASA Goddard/Jeremy Schnittman
Mettendo insieme i risultati di questa simulazione, Schnittman ha poi creato un’immagine del “bagliore” creato dai raggi gamma, così come potrebbe essere osservato guardando lungo la direzione dell’equatore del buco nero. Il valore massimo della luminosità emerge a partire dal punto centrale di una regione a “gobba crescente” situata sul lato del buco nero ruotante verso la direzione dell’osservatore. Questa è la regione dove i raggi gamma hanno la probabilità maggiore di lasciare l’ergosfera ed essere rivelati da un telescopio.
Insomma, secondo l’autore si tratta solo dell’inizio di un viaggio che si spera possa culminare un giorno con la rivelazione incontrovertibile di un segnale dovuto all’annichilazione delle particelle di materia oscura in prossimità di un buco nero supermassiccio. “La simulazione ci sta dicendo che esiste un eventuale segnale astrofisico interessante di cui abbiamo il potenziale di osservarlo in un futuro non molto lontano, man mano cioè che miglioreranno i telescopi che operano in banda gamma. Il passo successivo sarà quello di creare una struttura dove le attuali e future osservazioni gamma potranno essere utilizzate per affinare sia la fisica delle particelle che i modelli sui buchi neri”, conclude Schnittman.
Abbiamo chiesto un’opinione a Massimo Della Valle, direttore dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte dell’INAF e esperto di raggi gamma: «E’ un articolo molto speculativo, e non potrebbe essere diversamente, perché coinvolge campi dell’ astrofisica moderna, come quelli dei buchi neri e della materia oscura, che poggiano su sofisticate basi teoriche e numerico-computazionali. Come è noto il 26% circa dell’Universo nel quale viviamo è costituito di materia oscura “non barionica” cioè diversa dalla materia oridinaria della quale siamo fatti e che osserviamo con i nostri telescopi. Questo particolare tipo di materia è “inerte” dal punto di vista elettromagnetico (quindi non emettendo luce è “oscura”) e interagisce (debolmente) con la materia ordinaria, essenzialmente, attraverso la forza di gravità».
«Le particelle che costituiscono la materia “oscura” non si conoscono, ma hanno già un nome: WIMP che sta per Weakly Interacting Massive Particle, particelle al momento ipotetiche ma che sono i candidati ottimali per costituire la materia oscura non barionica. Ci sono già molto esperimenti atti a rivelare in modo indiretto la presenza degli WIMP attraverso l’energia sprigionata dai processi di annichilazione (vedi media INAF: Bagliori di WIMPs nel cielo di Fermi). Tuttavia esistono considerazioni teoriche e limiti sperimentali che mostrano che eventi di questo tipo potrebbero non essere molto frequenti».
«L’idea proposta da Jersey Schnittman – conclude Della Valle – e ripresa dalla press release della NASA è relativamente semplice: se queste particelle “sentono” solo la forza di gravità, allora sarà plausibile trovarle nei dintorni dei buchi neri che sono oggetti che si caratterizzano per possedere campi gravitazionali estremamente intensi. Dalle sue simulazioni numeriche, Schnittman deduce che la densità di WIMP vicino ai Buchi Neri (vicino ma non troppo, siamo ancora lontani dall’orizzonte degli eventi) sarebbe così alta da produrre un numero elevato di annichilazioni di WIMP capaci di generare un intenso “flare” in luce gamma, osservabili con i nostri strumenti. L’idea è plausibile, ma da sola non basta: adesso servono le osservazioni».
The Astrophysical Journal: Jeremy D. Schnittman, 2015 – The Distribution and Annihilation of Dark Matter Around Black Holes
arXiv: The Distribution and Annihilation of Dark Matter Around Black Holes
Physical Review Letters: Jeremy D. Schnittman, 2014 – Revised Upper Limit to Energy Extraction from a Kerr Black Hole
arXiv: Revised Upper Limit to Energy Extraction from a Kerr Black Hole
Fonte: Media INAF | Scritto da Corrado Ruscica