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Buco nero scatenato in M83

Creato il 28 febbraio 2014 da Media Inaf

È piccolo ma non lo si tiene. E quando è a tavola mette paura. Negli ultimi 20mila anni s’è ingurgitato una quantità di materia pari a centinaia, forse addirittura migliaia di volte quella che in teoria gli spettava. Liberando poi l’energia accumulata sotto forma di getti dalla potenza spaventosa, pari a qualche milione di volte quella del Sole: venti di particelle talmente intensi da mandare in tilt la Girandola del Sud – così è chiamata la galassia che lo ospita, nota altrimenti come M83, a una quindicina di milioni d’anni luce da noi.

Protagonista di cotanto sconquasso è MQ1, un microquasar (un buco nero di massa stellare con disco d’accrescimento) di calibro sorprendentemente modesto: nemmeno cento masse solari. E sono proprio l’affidabilità e la precisione della misura della sua massa l’architrave sul quale si regge l’importanza della scoperta, pubblicata oggi sulle pagine di Science Express da un team di scienziati guidati dal piemontese – come ha precisato con orgoglio ai microfoni di Media INAFRoberto Soria, attualmente ricercatore all’ICRAR di Perth, in Australia.

La massa, dicevamo. Già si conoscevano buchi neri iperattivi, energetici al punto da influenzare con le loro emissioni le galassie nelle quali si trovano. Ne abbiamo scritto anche qualche giorno fa proprio qui su Media INAF. Il problema è valutarne accuratamente la massa. Quelli di cui parliamo non sono i buchi neri supermassicci al cuore delle galassie: sono normali (si fa per dire) buchi neri di massa stellare. “Massa stellare”, però, come unità di misura è un po’ vaga. Elastica al punto che proprio l’intensità dell’emissione di alcuni soggetti particolarmente turbolenti, primi fra tutti le ULX (sorgenti X ultraluminose), ha portato gli astrofisici a ipotizzare l’esistenza dei cosiddetti buchi neri di massa intermedia. Questo perché, per quanto un buco nero possa mettercisi d’impegno, c’è un limite alla potenza che è in grado d’esprimere: una soglia che dipende, appunto, dalla sua massa, e che va sotto il nome di limite di Eddington

Se dunque l’energia espressa è troppa per essere compatibile con un buco nero di taglia small, probabilmente il responsabile deve indossare una media, no? E invece ecco la sorpresa. Dopo averlo tenuto sotto osservazione per un anno, e avergli preso le misure con ben tre strumenti (il telescopio spaziale Chandra della Nasa per i raggi X, l’infaticable Hubble Space Telescope in ottico e infrarosso, l’Australia Telescope Compact Array per la banda radio), gli scienziati sono giunti alla conclusione che quello in M83 è un buco nero di massa contenuta. È stato un po’ come imbattersi in un’utilitaria piccola ma truccatissima, capace di ridicolizzare un bolide da Formula 1: il libretto dice 40 cavalli, ma quella ne sprigiona allegramente almeno cento volte di più, alla faccia della Motorizzazione e delle leggi della meccanica.

«Stimiamo che MQ1 abbia una potenza tre o quattro volte superiore al limite di Eddington, che si pensava fosse il massimo raggiungibile», dice Soria. Certo, occorre tenere presente che quando parliamo di limite di Eddington non ci riferiamo a una soglia invalicabile, quale per esempio la velocità della luce. «È un po’ come i limiti di velocità in Italia», scherza il ricercatore, «un limite, diciamo così, indicativo». E cosa indica? «Approssimativamente, la massima luminosità che un buco nero può raggiungere in termini di fotoni».

Una precisazione, questa, che aiuta a comprendere come mai i getti – il cui principale tratto distintivo, rispetto all’emissione diffusa dei fotoni, è quello di essere collimati – possano infrangerlo così impunemente. «I jet perforano il gas che avvolge il buco nero come proiettili attraverso una nube», spiega Soria, «e non puoi certo pensare di fermare o rallentare una nuvola sparandole contro». Ma anche la stessa emissione luminosa sembra poter superare, seppur in modo meno eclatante dei getti, il limite di Eddington. Questo giustificherebbe un altro eccesso d’energia registrato in questi anni, un fenomeno gemello, quello appunto delle ULX. Offrendo così una visione d’insieme nuova, e coerente, sui buchi neri di massa stellare, sulla loro interazione con l’ambiente circostante e sulle condizioni in cui si trovavano i quasar nell’universo primordiale, quanto il tasso d’accrescimento era massimo. E suggerendo come forse non ci sia più bisogno, per spiegare la potenza anomala delle loro emissioni, di ricorrere ai buchi neri di massa intermedia.

Per saperne di più:

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina


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