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Bullet to the head – Western metropolitano 2.0

Creato il 08 aprile 2014 da Raystorm

Ci ho messo troppo tempo per vedere questa pellicola e dopo averla vista ammetto di essere stato un cretino lo scorso anno, esattamente il giorno del mio compleanno, a non mollare qualsiasi cosa stessi facendo per andare a vedermelo sullo schermo gigante del cinema. Si perchè “Jimmy Bobo”, titolo solo italiano scelto dal pubblico del web (tra l’altro bisogna dire che molti stanno a farsi seghe sui doppiaggi per poi stravolgere il titolo di una pellicola quando si presenta l’occasione),  è miracoloso per chiunque ami il genere dei thriller d’azione. Qualcuno sostiene che una pellicola come “Inception” difficilmente potrebbe essere compresa dal pubblico di dieci anni fà, beh si può affermare al contrario la stessa cosa per “Bullet to the head”, perchè l’ultima fatica di Walter Hill è solo ed esclusivamente ad appannaggio del pubblico che ne conosce il genere e sa apprezzarne i dettagli, quidni qualcuno che dieci anni fà, ma facciamo anche 15, andava in sala a vedersi pellicole di questo tipo, con più stunt che sequenze CGI. Sempre perchè chi c’era sa a cosa va incontro con questo film, la trama la salto completamente. Buona visione.

 

Bullet to the head – Western metropolitano 2.0

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“Bullet in the Head” è il ritorno del cinema classico di genere, un modo artigianale di vedere e intendere l’azione su schermo, perfettamente sintetizzato in quella anacronistica fisicità propria di Sylvester Stallone che si conferma vero e proprio autore del proprio io cinematografico. Fuori tempo, irrimediabilmente banale e incomprensibile dai discepoli dell’action green screen, Walter Hill continua a rielaborare l’immagine creando un cinema altro (“Ancora Vivo” ne è un esempio recente), filmando nuovamente la notte come solo lui può fare, ed in un attimo lo sguardo percorre per la prima volta territori sconosciuti (chi asseriva che il Refn di “Drive” avesse un debito con Hill, ha di che essere felice dato che troverà in questa pellicola la conferma da sbattere in viso a chi sbandierava il contrario), perché il cineasta non cade nell’agguato della citazione (non ne ha bisogno in quanto autore del genere tra i più illustri), o nel gioco  di contrapporre l’analogico al digitale (si vedano gli ultimi “Die Hard”). Preferisce invece caricare le lancette dell’orologio trasportando il passato nel presente, riprendendo le fila di un “discorso” rimasto in attesa del momento (tempo?) giusto per continuare la propria marcia. Mentre lo sguardo viene rapito sin da subito, ci si chiede come mai la coppia Hill-Stallone abbia atteso così tanto per incontrarsi, domanda la cui risposta diviene chiara con lo scorrere del film. Semplicemente attore e regista non avrebbero mai raggiunto un risultato simile prima di ora, perché solo adesso formano la coppia perfetta. Attore e cineasta sono i veri protagonisti della pellicola (ma anche la sceneggiatura non scherza in quanto a ritmo e battute), due figure unite che dialogano perfettamente dalla parte opposta delle medesima materia. Stallone dopo aver archiviato i suo fantasmi cinematografici (“Rocky” e “Rambo”), può affrontare qualsiasi sfida con il lusso di poter “semplicemente” interpretare se stesso, in quanto ormai non c’è distinzione tra la figura dentro e fuori dallo schermo, entrambe fuse ed appartenenti ad un immaginario popolare che automaticamente va a colmare i “vuoti” (nel bene e nel male).
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Ed infatti Jimmy Bobo non è nemmeno più un anti-eroe classico, ma diviene una anomalia nella realtà quotidiana, un uomo veramente fuori dalla società (no borderline, ma proprio un osservatore esterno ammaliato da qualcosa che non sa decifrare), che nemmeno cerca più un modo per entrarci (abbandona addirittura i connotati del padre di fronte ad una figlia che non ha bisogno di questa figura), limitandosi a vivere il proprio tempo nel modo che ritiene migliore, incurante di una possibile redenzione (non c’è traccia di alcun tormento in Jimmy e nemmeno tempo per pensare al passato, tutto è funzionale allo scopo, azione-reazione). Ecco quindi che la “classica” coppia formata da killer e poliziotto, funziona sotto una luce completamente nuova, non più animata dalla necessità di aiutarsi, ma dalla coscienza di una illusoria amicizia virile che non esclude un inevitabile confronto tra le parti, perché le loro azioni non sono animate dal rispetto reciproco o da una fiducia via via guadagnata, ma più semplicemente dall’opportunismo, dalla mancanza di scelta, dalla necessità di dover collaborare, ed infatti rimarranno rispettivamente killer e poliziotto sino alla fine. Hill archivia definitivamente un cinema che ha contribuito a creare per come lo conosciamo oggi e lo riforma dalle fondamenta, non ci sono più le “48 ore” perché il mondo è troppo veloce oggi rispetto a ieri, quindi tanto vale dilatare i tempi e le giornate in cui snodare la storia, se poi i criminali oggi possono essere i tutori dell’ordine allora anche un fuorilegge può divenire il nuovo sceriffo in città. Stallone, dal canto suo, accetta una sfida contro gli archetipi da lui stesso creati nella sua carriera facendosi carico di un personaggio finalmente “nuovo”, un reietto in grado di uccidere e giustificare le sue azioni con motivi che vanno dal denaro, al presunto affetto per un collega ucciso (ultimo legame con la realtà che lo circonda). “Bullet in the head” distrugge le fondamenta di un corpo cinema ormai destinato a riproporsi sbiaditamente sotto forma di “more of the same” (vedasi “2 guns” ad esempio) o mediando tra ieri e oggi (“Die Hard – Un buon giorno per morire”), ricordandoci che lo spettacolo può essere straordinario anche con personaggi sprovvisti di maschere e martelli che richiamano fulmini.

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