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Bulvari Atatürk

Creato il 26 luglio 2012 da Pim

(Kemer, Turchia meridionale, agosto 2005)

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Il Viale Ceccarini di Kemer si chiama Bulvari Atatürk. Si apre alla vista un’infilata di negozi d’abbigliamento, souvenir, di gioiellieri e mercanti di tappeti. Sulla soglia di ognuno sta un omino che mentre cammini ti si para davanti e, con un cenno gentile della mano, invita ad entrare. All’inizio, la cosa sembra pure divertente e stai al gioco: entri, guardi tutto, poi esci e tanti saluti. A lungo andare, la faccenda si fa però stancante. Ogni volta un sorriso, un gesto di diniego, poi ci si allontana con la voce dell’omino alle spalle che insiste con tono querulo. Guai fermarsi davanti ad una vetrina, allora, neppure per una frazione di secondo. O, peggio, indicare una t-shirt, un braccialetto, un oggetto qualunque. Il pressing si rinnova asfissiante e diventa complicato liberarsi dalla logorrea a maglie strette di questi levantini.

Quando si decide di dare un’occhiata alla merce, lo si fa nei negozi forniti di aria condizionata o – alla meno – di ventilatore. Ancora intorno alla mezzanotte i termometri misurano stabilmente i 30 gradi e, quel ch’è peggio, l’80% di umidità. Un solo attimo di refrigerio appare provvidenziale. L’omino ti chiede subito da dove vieni, sfoderando un improbabile inglese oppure qualche vocabolo russo. Se infatti la metà dei turisti che assaltano la costa meridionale della Turchia è italiana, l’altra metà è rappresentata dalla ricca borghesia della molto ex Unione Sovietica. Appena si pronuncia il nome del nostro Paese, l’omino si apre invariabilmente ad un sorriso smagliante seguito da alcune stentate parole – le stesse, ogni volta. “Oh, italiano… Buonasera, come stai?”. Una sera un tale, dopo avermi stretto con enfasi la mano, sibila: “Italia… Belluscone” e poi strizza l’occhiolino. Classici i riferimenti calcistici, i quali permettono di attaccar bottone anche con il turista più recalcitrante. “Italia, Juventus”. E qui l’orgoglio bianconero apre disgraziatamente un varco nel quale l’omino si butta a capofitto. Uno mi chiede se conosco Hakan Sükür. Come no: con la maglia del Galatasaray ci rifilò una caterva di gol in svariate edizioni della Champions League, tanto che, per togliercelo di torno, pensammo perfino di comprarlo. Poi lo prese il Torino, rimase un paio di mesi durante quali non vide palla e se ne tornò a casa sua incazzato nero. Naturalmente anche l’omino conosce la storia, forse è più incazzato con noi italiani dello stesso Sükür, però sorvola. Lui è lì per vendere, mica per far polemica.

Il commerciante turco ha nel Dna la tipica astuzia levantina: detto brutalmente, tenta sempre di fregare il turista. Il bello è che ci riesce. Anche quando, al termine di estenuanti trattative, riesci a spuntare il prezzo che vuoi, rimane il dubbio di aver soltanto fatto il suo gioco. E poi la merce. Un mucchio di camicie Dolce & Gabbana, t-shirt firmate Nike, scarpe Prada, borse Gucci o Yves St. Laurent, profumi marca Chanel. A prezzi irrisori, perché è – ovvio – tutta roba taroccata. Dal canto suo, il governo turco chiude entrambi gli occhi e non fa una piega: il mercato di articoli contraffatti porta ricchezza, pecunia non olet. Per ciò che riguarda l’abbigliamento, bisogna pur ammetterlo, la qualità dei prodotti si dimostra apprezzabile: il cotone turco è forse il migliore del mondo – basta non dirlo agli egiziani…

Giulia nota una borsa di Gucci: prezzo di partenza, ottanta euro. No, troppo, buonasera. Il negoziante si finge indignato, poi scende a sessanta e quindi a cinquanta. Se fosse davvero Gucci non basterebbe una cifra dieci volte tanta, ma Giulia non cede. Lui le porge allora una calcolatrice: fai tu il prezzo. Io la avverto: guarda che se proponi troppo poco, ti manda a stendere di brutto e la borsa la saluti. Ci pensa un attimo e poi scrive trenta euro. Chiudo gli occhi: adesso la prende a cannonate. Macché: il turco accetta al volo, con una fretta che a questo punto pare sospetta. E, come se non bastasse, al momento di pagare fa pure lui l’occhiolino. Delle due l’una: o sono il suo tipo, oppure ci ha buggerati.


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