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Contrariamente a quel che si può pensare (“colpa della Lega che detta la linea del governo”), le cause di questa freddezza sono remote e vanno rintracciate nelle due culture dominanti nel Novecento, la cattolica e quella marxista. L’unificazione fu realizzata contro il volere e gli interessi del Vaticano che, con l’approvazione unilaterale della “legge delle guarentigie” (1871), patì la fine del potere temporale del Papa. Lo scontro sfociò nella scomunica dei protagonisti del Risorgimento, nel mancato riconoscimento dello Stato italiano da parte del Pontefice (per la composizione della “questione romana” si dovranno attendere i Patti lateranensi del 1929) e nel celebre non expedit con cui Pio IX, nel 1868, proibì ai cattolici di prendere parte alla vita politica del Paese, divieto che ufficialmente rimase in vigore fino alla nascita, nel 1919, del partito popolare di Sturzo (in realtà, l’Unione elettorale cattolica già nel 1904 diede ai fedeli indicazioni di voto, mentre è del 1913 il “patto Gentiloni” che assicurava il sostegno dei cattolici a quei candidati che si impegnavano a difendere le questioni care alla Chiesa). Per la cultura marxista, il Risorgimento si era rivelato un’occasione persa e il tradimento delle aspettative del popolo, attratto dal miraggio della “terra ai contadini” e ferocemente represso dall’esercito piemontese e dagli stessi garibaldini. Basti ricordare l’eccidio di Bronte, denunciato da Giovanni Verga nella novella Libertà, dalla quale il regista Florestano Vancini trasse, nel 1972, il bellissimo Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
Certo, in passato è a lungo prevalso un eccesso di retorica, in particolare sulla partecipazione popolare, modesta tra i ceti più poveri e meno acculturati, privi di coscienza politica e poco interessati alla lotta per la libertà e per l’indipendenza dell’Italia, oltre che completamente all’oscuro di quanto avveniva a distanza di pochi chilometri dal proprio tugurio, stanti la scarsa circolazione delle notizie e l’analfabetismo dilagante (80-90% della popolazione nelle regioni meridionali). Così come si è minimizzato sulla brutalità della lotta al brigantaggio, che poco aveva di politico e molto di economico e sociale (messo peraltro in luce dall’inchiesta Massari nel 1863), ridimensionando le cifre spaventose di un massacro reso possibile grazie alla copertura legislativa autoritaria e illiberale della legge Pica. Eppure, la sensazione è che oggi si stia compiendo un’esagerazione contraria per sostenere subdolamente la tesi che l’unificazione del Paese non sia stato un buon affare per nessuno. Non si possono però difendere le ragioni del Sud sostenendo che prima dell’Unità il Mezzogiorno era il regno del progresso e che il divario economico con il Nord è un lascito del Risorgimento.
L’arretratezza è tanto l’esito di politiche governative nord-centriche, quanto la conseguenza di una classe dirigente meridionale che ha sempre fatto dell’ascarismo il solo orizzonte politico. La subalternità del Sud è anche il prodotto di una classe dirigente piagnona e sorda, incapace di ribellarsi e tuttavia convinta, come il principe di Salina, che “Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”. Di fronte allo scippo perpetrato (e certificato) a danno del Sud nell’ormai nota vicenda dei fondi Fas, i nostri rappresentanti avrebbero dovuto alzare in Parlamento le barricate, coalizzandosi al di là degli schieramenti politici di appartenenza per “fare squadra” a difesa degli interessi del Meridione. Niente di tutto ciò. Per gli ascari, un posto da sottosegretario o qualche incarico di rilievo da potere esibire nel curriculum hanno lo stesso effetto dello zucchero consigliato da Mary Poppins. Anche se invece della pillola occorre mandare giù un rospo.
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