Vuoi vedere che il nostro cinema è ancora in grado di mettere in scena commedie semplici, garbate, ironiche, legate sì alla realtà ma senza il pretesto di sbatterti in faccia la solita pseudo morale d’accatto buona, nella sua generica autoassoluzione, per il consueto salotto televisivo? Possibile, poi, che si riesca nuovamente a valorizzare le interpretazioni attoriali, concedendo già in fase di scrittura un certo respiro espressivo al di là del loro semplice uso come tramite per propinare gag stantie e volgari o cliché standardizzati per ogni palato?
Giorgia Farina (radiocinema.it)
Sono interrogativi scaturiti dopo la visione di due pellicole italiane, Buongiorno papà e Amiche da morire, che hanno trovato risposte positive, con i dovuti distinguo. Dirette da giovani registi, rispettivamente Edoardo Leo e Giorgia Farina, quest’ultima al suo debutto nei lungometraggi, mentre il primo ha esordito sul grande schermo tre anni orsono (il non disprezzabile Diciotto anni dopo), ambedue fanno affidamento su un valido cast, uno stile di regia semplice, lineare, attento, mai invasivo, ed un buon lavoro di sceneggiatura, dove finalmente l’espressione “a più mani” conferisce il senso di un congruo apporto d’insieme.Si dà vita, in entrambi i casi, al classico film “medio”, volto al grande pubblico, cui si offre un maturo intrattenimento, l’apprezzabile intento di narrare una storia ed offrirla agli spettatori nell’ intuibile assunto di evitare il facile assioma che leggerezza voglia necessariamente significare inconsistenza.
Edoardo Leo (My Movies)
Peccato che, almeno stando ai dati del botteghino, questi due film non siano stati premiati da un successo di pubblico almeno pari ad altre realizzazioni, commedie che continuano a puntare sul subitaneo effetto comico, il facile coinvolgimento, l’inconsistenza programmatica spesso mascherata da accomodante satira di costume. Fumo negli occhi che ha portato negli anni sia all’incapacità di spaziare fra i vari generi, con le dovute eccezioni, sia ad un’assuefazione omologante, con sistemi più o meno subdoli, tra (auto)compiacimenti e ruffianerie.A parer mio il male non è la commedia in sé, da sempre, non solo cinematograficamente, una delle nostre vie preferite nel narrare la realtà, ma la scelta delle sue modalità rappresentative, che si è persa negli anni tra i rivoli di vacui richiami al passato e senza il coraggio d’esprimere, pur nel rimando, un’identità ben precisa al di là del facile, ed ovvio, intrattenimento generalizzato.
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Buongiorno papà è incentrato sulla figura del “quasi quarantenne” Andrea (Raoul Bova), fisico atletico, abbronzatura da lampada d’ordinanza, capelli tinti, vestiti ben stirati (ci pensa mamma), un impiego presso un’agenzia cinematografica di product placement, grazie al quale può permettersi spiderino e loft in quel di Sabaudia, quest’ultimo condiviso con l’amico Paolo (Leo), disoccupato, timido, insicuro, incapace di trasformare il suo sogno nel cassetto in realtà (catering ed animazione per le feste dei bambini), oltre ad avere alle spalle infelici trascorsi sentimentali, mentre il coetaneo “fighetto” vola di fiore in fiore, tra serate in discoteca e feste varie. Ad interrompere l’ esistenza “autarchica” di Andrea, dove l’unica responsabilità, lavoro a parte, è il mantenimento ad oltranza della propria persona, ecco il classico fulmine a ciel sereno, l’arrivo della diciassettenne Layla (Rosabell Laurenti Sellers), che sostiene di essere sua figlia, frutto di un’avventura in campeggio, con tanto di nonno al seguito, Enzo (Marco Giallini), hippie restio all’estinzione con un passato da rocker…
Raoul Bova
Sceneggiato dallo stesso Leo, insieme a Massimiliano Bruno e Herbert Simone Paragnani, il film delinea un impianto narrativo non certo originale, debitore di alcune pellicole d’oltreoceano (About a Boy, 2002, Paul e Chris Weitz, Somewhere, 2010, Sofia Coppola, per esempio), ma che offre lo spunto al regista di fare leva su un’ironia basata sulla naturale presenza dei vari personaggi in scena, sulle diverse modalità comportamentali messe in atto nel fronteggiare le problematiche e conseguenti responsabilità che la vita gli ha messo innanzi, per di più nell’ambito di una realtà dove appare ormai sfalsato qualsiasi “classico” parametro di riferimento. Ecco che un’adolescente come Layla (ben resa tra broncio ed ostinazione dalla Sellers), pur in fase di crescita ed “assestamento” (la mamma è morta da poco), ha già le idee ben chiare in testa, ma non sa come dare loro forma concreta se intorno a lei ci sono un padre adulto solo all’anagrafe, il suo amico candido disadattato, un nonno da parte di madre prigioniero di un’era che non tornerà più (se non in forma di tragicomico sonnambulismo) e i due nonni paterni (Paola Tiziana Cruciani e Mattia Sbragia) in via di risolvere una normale crisi di mezz’età con il divorzio, dopo anni di matrimonio.Marco Giallini, Rosabell Laurenti Sellers, Edoardo Leo
Si visualizza quindi sullo schermo un’efficace coralità, ogni attore ha il suo spazio e concreta capacità di caratterizzazione (su tutti prevale Giallini, Bova a volte stride nel passaggio dai toni ironici a quelli più seri) nel disinnescare un certo disincanto esistenziale comune ai singoli personaggi, ma di matrice diversa. Fondamentale l’apporto dato da Nicole Grimaudo/Lorenza, l’insegnante di scienze motorie di Layla, che insieme a quest’ultima avrà la sua parte nella crescita definitiva di Andrea.Peccato per alcuni vuoti che si vengono a creare, colmati dalla solita musica “a palla”, invasiva e debordante, o varie insistenze visive nel caratterizzare i momenti drammatici (l’immancabile pioggia a scroscio dopo un alterco tra padre e figlia), che evidenzia una certa difficoltà nella loro gestione, ovviandovi spesso con un sentimentalismo ai limiti della sopportabilità e pericolosamente vicino ai confini della fiction televisiva. Siamo comunque, fortunatamente, lontani dal “carino” d’ordinanza, perché l’espressione, spesso abusata, “valida gradevolezza complessiva” trova in tal caso concreta ragion d’essere, con qualche valido spunto di riflessione (oltre a quello della crescita/confronto, il tema della pubblicità da sempre presente anche nei film autoriali) che lascia ben sperare per il futuro.
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Amiche da morire, sceneggiato dalla regista Farina insieme al’immancabile Fabio Bonifacci, evidenzia la ritrovata capacità della nostra commedia di mischiare le carte in tavola, tra note di costume viranti al grottesco e tocchi ben congegnati di matrice noir, senza dimenticare un po’ di caustico cinismo nel caratterizzare un sense of humour d’ispirazione anglosassone.
Siamo quindi di fronte ad una black comedy per nulla scontata, piacevole, divertente, che può contare su una buona scrittura ed una regia “agile” e concreta, capaci entrambe di porre piacevolmente in inganno gli spettatori con un avvio tutto particolare, volto a sottolineare, apparentemente con toni compiaciuti ed insistiti, i soliti luoghi comuni sul Meridione d’Italia. In una non precisata isola siciliana (in realtà il film è girato in Puglia) ecco sfilare sotto il sole rovente (bella la fotografia di Maurizio Calvesi) l’immancabile processione del santo patrono, tra vecchietti al bar e beghine in fila a mormorare litanie aventi come oggetto non certo la volta celeste ma le terrene, e più interessanti, vicende del luogo, che vedono al centro dell’attenzione tre chiacchierate figure femminili, ognuna per motivi diversi.
Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore, Cristiana Capotondi
Gilda (Claudia Gerini) “forestiera” dedita professionalmente all’amor profano, Olivia (Cristiana Capotondi), eterea fanciulla casa e chiesa, sposata con l’aitante pescatore Rocco (Tommaso Ramenghi) e madrina della celebrazione religiosa in corso, Crocetta (Sabrina Impacciatore), nomen omen, che detiene la fama di iettatrice, causa fuga improvvisa e “violenta” degli uomini che hanno provato ad avvicinarla: queste tre donne, complici un presunto tradimento ed un improvviso colpo di pistola, si troveranno unite a fronteggiare pregiudizi e dicerie in nome di una forte solidarietà che diverrà anche percorso d’autodeterminazione e presa di coscienza delle proprie potenzialità, spesso soffocate, oltre che dalle solite malelingue (splendida la raffigurazione del “clan del pettegolezzo”, che vede al centro Marina Confalone), dagli uomini (ma anche dalle donne, come la madre di Crocetta, Lucia Sardo) che hanno incontrato durante il cammino, individui incapaci di guardare oltre le apparenze, mariti che hanno approfittato della loro ingenuità e ora trasformati in eccedenza di produzione della locale tonnara, maschilisti per i quali denaro è potere, granitici misogini come l’ispettore Nico Malachia (Vinicio Marchioni), capaci d’intuire la verità ma non di dimostrarla.Vinicio Marchi
Per quanto l’inizio appaia un po’ lento, l’esplosione del suddetto colpo di pistola conferisce l’identità definitiva al film, accompagnando l’evoluzione delle protagoniste, quanto mai affiatate ed efficaci nella personalizzazione di tre figure proprie della nostra tradizione, non solo cinematografica. Se Gerini è una piacevole conferma, Capotondi crea un valido contrasto tra il suo candore da Biancaneve e la trasformazione in lady killer, reso efficace da dialoghi e battute al vetriolo (“gli posso lasciare un fiore?” alla visione del marito ormai “tonnato” o la maschera di bellezza dopo le revolverate, perché “sparare mi secca la pelle”). La vera sorpresa è Impacciatore, deliziosa nella sua evoluzione sexy pur mantenendo l’atavico ritornello “ho timore”, memore certo della Monica Vitti de La ragazza con la pistola, ’69, Mario Monicelli, i cui stilemi, come quelli del Pietro Germi di Sedotta e abbandonata, ‘63, sono evidenti nel corso della narrazione, vedi l’impiego funzionale dei citati luoghi comuni, la stolidità di Malachia (a volte vagamente macchiettista) o le varie uscite delle pettegole e il confronto in stile resa dei conti western con le giovani “dissolute”. Farina ha poi il coraggio tutto da premiare, di portare avanti l’idea di un “delitto senza castigo”, con un finale lungi dall’essere accomodante o consolatorio, anzi ideale complemento dell’assunto proprio di tutto il film, un percorso d’emancipazione giocato su intelligenza e furbizia nel contraccambiare ingratitudine e arcaici pregiudizi.