Burn-in. Se avete dimestichezza con questo termine significa che come me, per vostra sfortuna, siete incappati in questo spiacevolissimo difetto hardware che, seppur non vada ad inficiare sensibilmente l’uso quotidiano dello smartphone, riesce senz’ombra di dubbio a mettere a dura – durissima – prova il sistema nervoso, specialmente se ad esserne afflitto è quello smartphone da diverse centinaia di euro che siete riusciti ad accaparrarvi solo dopo aver venduto un rene, il braccio sinistro e il gatto di vostro cugino al mercato nero.
Ma facciamo un passo indietro e partiamo dalle origini – dopotutto non tutti hanno avuto la sfortuna d’incappare in questo difetto. Cos’è il burn-in?
I lettori più vintage – perché non mi va di dire “anziani”, equivarrebbe a darmi da solo del vecchio – sicuramente ricorderanno quei grossi, brutti e pesantissimi schermi a tubo catodico che, sino ad un decennio fa, affollavano le nostre scrivanie – chi non li ricorda è pregato di recarsi in un qualunque ufficio pubblico, ne troverà senza difficoltà qualche esempio.
Bene, il burn-in è quel difetto – presentatosi la prima volta proprio su monitor CRT (specialmente su quelli basati sulla tecnologia dei fosfori verdi) – che, a seguito della visualizzazione prolungata nella stessa posizione nello schermo di un tema grafico, di un logo o di un’icona poteva comportare un deterioramento del fosforo dello schermo con conseguente formazione di quella che viene comunemente chiamata “immagine fantasma“, ovvero quell’immagine sbiadita (del tema, del logo o dell’icona che per molto tempo è rimasta impressa sullo schermo) che, indipendentemente da ciò che si visualizza sul display, rimane lì, in sovrimpressione.
E il perché questo avvenga (su monitor a tubo catodico) è presto detto: più o meno come l’efficienza dei tubi fluorescenti utilizzati per l’illuminazione va mano mano scemando nel corso del tempo, l’efficienza del fosforo presente all’interno di un tubo catodico diminuisce ogni volta che lo si utilizza e dunque, se una porzione dello schermo rimane costantemente accesa (per poter visualizzare sul monitor una determinata immagine) ecco che quell’immagine rimarrà impressa in maniera permanente all’interno della superficie luminosa.
Ottimo, ora che abbiamo un’infarinatura di base cerchiamo di capire come mai tale problema affligga oggi anche alcuni smartphone che, a tutto vantaggio delle dimensioni e dell’ergonomia, non sono dotati di schermo a tubo catodico.
Come sicuramente il 95% di voi lettori saprà, i display dei telefoni oggi in circolazione si distinguono sostanzialmente in 2 tipi: IPS e AMOLED. I display IPS (acronimo di in-plane-switching), tendenzialmente quelli più diffusi, per poter visualizzare le immagini fanno uso di una sorgente luminosa il cui compito è quello di rendere visibili i vari pixel di un tradizionale schermo LCD. A differenza di quanto avviene con gli IPS, i display AMOLED (acronimo di active-matrix organic light-emitting diode) non necessitano una fonte di retroilluminazione, e questo perché il pannello è costituito da singoli LED organici emettitori di luce.
Ovviamente le due tipologie di display hanno i propri pro e i propri contro: gli IPS riproducono più fedelmente la gamma cromatica e sono più visibili sotto l’intensa luce solare, i display AMOLED sono più sottili – in quanto non è richiesto spazio per la sorgente luminosa -, hanno dei neri assoluti e così via, con i pro e i contro delle due tecnologie potremmo andare avanti ancora per un bel pezzo, tuttavia, c’è un aspetto degli AMOLED che gioca particolarmente a loro svantaggio: sono soggetti al burn-in.
Già, e il problema del burn-in dei display AMOLED risiede unicamente nella “O” che si trova nel mezzo e che sta per “organic”. Ebbene, i composti organici utilizzati nei display AMOLED sono sostanzialmente dei polimeri o dei copolimeri come il polifluorene (PFO) o il polifenilene vinilene (PPV) che, per nostra somma sfortuna, sono prodotti chimici suscettibili di degrado d’uso e di cristallizzazione se sottoposti ad alte temperature.
Ma attenzione, non è finita qui: di display AMOLED esistono due varianti principali, una prima che adotta una griglia RGB che utilizza 3 subpixel per pixel ed una seconda, chiamata PenTile, che utilizza un layout a doppio subpixel di coppie rosso/verde e blu/verde.
Come risultato di questa struttura, la tecnologia PenTile (brevettata da Samsung e data in licenza a poche altre compagnie) contiene il doppio di subpixel verdi rispetto ai subpixel rossi e blu. Il che è tutto bello e interessante, ma cosa cambia all’atto pratico? Bè, siccome i subpixel blu sono quelli che si usurano più velocemente e dato che proprio questi subpixel sono in numero nettamente inferiore negli schermi PenTile ecco che abbiamo scoperto che gli AMOLED RGB tenderanno ad essere molto più soggetti al burn-in rispetto agli AMOLED PenTile. Interessante no?
Tempo di tirare le somme e di ricapitolare cos’abbiamo imparato oggi: