"I'm waiting for Alice" © Paolo Castronovo
«Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo: quello di raccontare delle storie».
Questa frase di Dino Buzzati (1906-1972) sintetizza perfettamente il senso del suo narrare eclettico. Il Deserto dei Tartari è il suo capolavoro, originale e profondo, troppo spesso accostato e schiacciato dal paragone con le pagine di Kafka.
Il Deserto è una grande metafora, lo stesso Buzzati raccontò più volte la genealogia del suo romanzo. Lo spunto gli venne dalla monotona routine redazionale notturna, che faceva in quei tempi: “Molto spesso avevo l’impressione che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. E’ un sentimento comune, io penso, alla maggioranza degli uomini, soprattutto se incasellati nella esistenza ad orario delle città. La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva: nulla di meglio di una fortezza all’estremo confine, mi parve, si poteva trovare per esprimere appunto il logorio di quell’attesa” (Il Giorno, 26 Maggio 1959).
Quell’attesa poteva durare anni, era necessaria ostinazione e pazienza, si doveva soltanto imparare ad aspettare. Anche se troppo spesso il risultato era solo un fallimento, un vecchio cronista poteva arrivare alla fine della sua carriera senza aver mai scritto uno di quegli articoli che riescono a far vacillare dittature o cambiare il senso della storia, senza essere mai diventato una grande firma.
Quest’angoscia Buzzati la fa rivivere nelle aspettative mancate del tenente Drogo. Il protagonista del Deserto dei Tartari attende tutta la vita l’arrivo dei misteriosi tartari inutilmente: si spegnerà con un malinconico sorriso quando la morte gli riserverà l’ultima beffa. Alla fine i Tartari sono arrivati davvero alla fortezza Bastiani ma troppo tardi: all’inizio dell’attacco una carrozza porta lontano dal campo di battaglia Drogo. Gli anni sono passati invano, la città s’è fatta sempre più distante. Per raggiungere la fortezza al giovane tenente era bastata una cavalcata ma il tempo del romanzo si dilata e con esso pure le distanze, la Fortezza Bastiani è un mondo a sé, con le sue regole. Servono parole d’ordine, una diversa ogni giorno per superare gli sbarramenti che dividono la fortezza in settori autosufficienti, chi s’attarda e non conosce la nuova parola d’ordine è destinato a morte certa. Questa danza della marionette in divisa è assurda e logorante. Non c’è scampo, appena si indossa la divisa del reggimento, cucita dal solerte Prosdocimo, la vita di prima diventa un debolissimo ricordo.
Il tempo che inglorioso passa è il vero protagonista:
«Un presentimento – o era solo speranza – di cose nobili e grandi lo aveva fatto rimanere lassù, ma poteva essere anche soltanto un rinvio, nulla in fondo restava pregiudicato. Egli aveva tanto tempo davanti. Tutto il buono della vita pareva aspettarlo. [...] Quanto tempo davanti! Lunghissimo gli pareva anche un solo anno e gli anni buoni erano appena cominciati; sembravano formare una serie lunghissima, di cui era impossibile scorgere il fondo, un tesoro ancora intatto e così grande da potersi annoiare. Nessuno che gli dicesse: “Attento, Giovanni Drogo!”. La vita gli pareva inesauribile, ostinata illusione, benché la giovinezza fosse già cominciata a sfiorire. Ma Drogo non conosceva il tempo. Anche se avesse avuto dinanzi a sé una giovinezza di cento e cento anni come gli dei. Anche questo sarebbe stata una povera cosa. [...] Quanto tempo dinanzi, pensava. Eppure esistevano uomini – aveva sentito dire – che a un certo punto (strano a dirsi) si mettevano ad aspettare la morte, questa cosa nota e assurda che non lo poteva riguardare».
Finisce con un sorriso beffardo la non-vita di Giovanni Drogo, ventinove anni dopo che la Fortezza s’è impossessata anche di lui: “nel buio, benché nessuno lo veda, sorride”.
L’attività di Buzzati è stata poliedrica: quadri a olio, illustrazioni, un intero poema a fumetti, poesie, libretti d’opera, pièces teatrali e soprattutto racconti. Quest’ultima è la dimensione narrativa che gli è più congeniale, proprio con il libro Sessanta racconti vince il premio Strega nel 1958.
Nei racconti maggiore spazio è riservato alla fantasia. È sufficiente ricordare il babau, il mostro che vive negli armadi dei bambini, fatto di «di quell’impalpabile sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione».
Ed è impossibile dimenticare il Colombre, simbolo di tutte quelle promesse che inseguiamo sin da bambini e che poi sistematicamente violiamo, ridimensionando tutti i nostri sogni per quelle solide certezze che ci condurranno in silenzio a quella inevitabile morte che, con un po’ di fortuna, accoglieremo con un sorriso.
(Per chi ama gli audiolibri: è disponibile il deserto dei Tartari in 22 puntate letto da Massimo Popolizio)