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Buzzati e la morte abbracciati

Creato il 25 ottobre 2011 da Pupidizuccaro

Qui alla morte
è tornato Dino Buzzati
che con lei visse
dolcemente abbracciato.

Indro Montanelli, autore di una particolare “Spoon River” dei vivi, con questo epitaffio descriveva Dino Buzzati, suo collega al Corriere della Sera. Uscito in occasione del 105esimo compleanno dello scrittore, purtroppo solo in allegato all’edizione milanese del quotidiano di via Solferino, l’aperiodico Mosso ha omaggiato l’autore del Deserto dei Tartari (su cui oggi è uscito anche questo articolo) con l’opera dell’illustratrice Chiara Dattola e del fumettista Roberto La Forgia. Per chi non ha la fortuna di vivere all’ombra della Madonnina, qui è possibile scaricare l’albo in pdf e di seguito leggerne la prefazione di Daniela Monti, attuale caposervizio alle cronache del giornale.

Buzzati e la morte abbracciati
Negli archivi del Corriere – nascosti al piano interrato, come i forzieri che custodiscono i tesori – le macchine sputafoto, sempre accese anche di notte, mi fanno volare due immagini sulla scrivania. La prima è di un signore di mezza età, maniche di camicia arrotolate, cravatta: sta scrivendo a mano, con una stilografica. È uno degli scatti più belli di Dino Buzzati al Corriere. La didascalia dice: “Chi arrivava nel suo uffi cio al giornale, uno stanzino minuscolo, lo trovava di solito così, le ginocchia contro la scrivania, la cartella di cuoio sulle gambe, a passare gli articoli altrui o a arabescare i propri”. Nella seconda si cambia scena, l’ufficio ha armadi in metallo ed è aff ollato: ci sono dei poliziotti, uno parla al telefono. E poi c’è un signore seduto, che prende appunti. La didascalia dice: “Dino Buzzati nella centrale della Volante in una delle notti milanesi”. Penso che l’idea (piuttosto recente) di appendere, lungo le pareti dello scalone centrale del Corriere, i ritratti degli uomini e delle donne che hanno fatto grande il giornale, sia nata guardando foto come queste: quanta passione trasmettono, quanto intenso desiderio di essere all’altezza di simili compagni di viaggio suscitano in chi sale quelle scale! Per molti anni, accanto al computer sul mio tavolo, nella redazione a pochi metri da quella sala Albertini in cui lavorò Buzzati, ho tenuto una copia de Il deserto dei Tartari: mi ha fatto compagnia nelle lunghe ore del turno di notte. Sento Buzzati che dice: “Ho immaginato quella storia nelle notti trascorse al Corriere”. E ancora: “Accanto a me, nella cucina del giornale, c’erano colleghi più illustri, o chiaramente destinati a diventarlo; ma c’erano anche colleghi con le borse sotto gli occhi, appiattiti dalla routine del lavoro quotidiano, sbiancati in viso da una vita con gli orari alla rovescia”. Dice che il libro è nato da qui, “da questo rapporto con tanti amici che non avrebbero mai vissuto un giorno di gloria”. Buzzati è una specie di miracolo perché in lui c’è tutto: la gloria dello scrittore aff ermato e l’umiltà del giornalista piegato sul pezzo di un altro. Montanelli diceva: “Il giornalismo gli era necessario perché era lì che trovava il suo unico aggancio alla vita. Alla vita ha sempre dato del lei, non c’è mai entrato in pianta stabile”.


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