Ascoltavo la sonata per pianoforte, Opera 2 n. 3, di Beethoven (ciao, Allevi) (che voi potete sentire oltre che al link, in questo stesso film, suonata per davvero da Saoirse Ronan) e pensavo:
i vampiri non sono il male, lo sono gli esseri umani che ne scrivono.
Se i vampiri sono diventati mostri ridicoli, narrativamente parlando, è colpa di alcuni, ben noti esseri umani, e delle orde di fan loro lettori.
E arrivano, in soccorso a questa figura tanto bistrattata dai simoniaci editoriali, Neil Jordan (regia) e Moira Buffini (sceneggiatura) a mostrare quanto sia viva e vitale, pur nella persistenza delle tematiche, la creatura immortale.
Questa è la recensione di Byzantium (ciao, gugle).
E io, spettatore, me ne sto lì a guardare la poetica delle immagini, una località sulla costa, nebbiosa al mattino, morbida di colori artificiali, la notte, pur essendo inverno, mitigato dal mare.
Guardo Saoirse Ronan, che passeggia con indosso un cappuccio rosso, e penso che come protagonista della favola sarebbe stata cento volte più espressiva di Amanda Seyfried in quell’altro film, pur vincolata, com’è qui, dalla rigidità di Eleanor, il suo personaggio.
Byzantium è un nome evocativo, la capitale sul Bosforo di un fulgido impero che non c’è più, del quale s’è perso ormai il retaggio. Qui è solo un nome, un’insegna gialla nella notte di una pensione fatiscente. Un luogo dove si fa la vita, per mettere i soldi sul tavolo.
Difficile, oggi, immaginare vampiri costretti a prostituirsi, per andare avanti, abituati (male) come siamo.
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Gemma Arterton, sempre più brava, e Saoirse Ronan (che diversamente dalle attrici-prodigio bambine degli ultimi anni è la sola che continua a dimostrarsi vera e ottima attrice) sono il contrasto che fa di Byzantium un ottimo film. E non parlo solo di contrasto fisico, tanto mora, creola quasi è Arterton, quando algida e eterea e Ronan, quanto caratteriale. Clara (Arterton) è colei che sottrae al mondo la poesia, che le prostitute le chiama puttane, che l’amore lo chiama botta, porta il realismo della strada in un mondo di fantasie epiche e strazianti che invece è la quotidianità per Eleanor.
E funziona, ed è perfettamente bilanciato. Entrambe le visioni, il piegarsi a fare un pompino per Clara, lo sfruttare selvaggiamente l’occasione, il tutto per andare avanti un altro giorno, è bilanciato con gli sguardi carichi di malinconia di Eleanor che guarda il mare agitato dalla camera del Byzantium.
La narrazione è affidata alla voce di Eleanor che, come condanna, ha la memoria, come punizione il segreto su questa stessa memoria, ovvero non può raccontare a nessuno la sua storia né la sua condizione.
E così non fa altro che scrivere e riscrivere la storia della sua vita su fogli che strappa e getta al vento, accompagnata dalla musica di Beethoven.
Tanto è depressa Eleanor, quanto concentrata sull’istante Clara. La prima romantica, la seconda futurista. Contrasto esaltato anche dalla scelta musicale, classica per la prima, da strip club per la seconda.
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Ma non parliamo solo di questo, ma di una sensibilità che porta a considerare dall’interno lo stato mentale di queste creature. Per la cronaca, non sono vampiri propriamente detti, ma soucriant, figura analoga della tradizione caraibica. Non hanno zanne, non mordono o soffiano come gatti in calore, non hanno le lucette colorate negli occhi, ma solo un’unghia che si estende come un pungiglione e che serve a bucare le arterie. Perfettamente inseriti in un contesto estetico che, potendo i soucriant esistere anche in pieno giorno, consente inquadrature strazianti al crepuscolo.
Stato mentale, s’è detto. Perché pochi autori in realtà, eccitati alle prese coi superpoteri dei vampiri, si soffermano a pensare seriamente a cosa possa voler significare una vita che non finisce. Un affastellarsi di ricordi, sensazioni, traumi che restano lì, senza alcuna possibilità di essere rimossi o dimenticati. L’idea è: quanto possono essere fragili, esseri così?
Eleanor e Clara sono reiette dalla loro stessa stirpe, perché donne in un mondo di vampiri che hanno scelto di essere uomini. Curiosa scelta narrativa che rende le protagoniste ancora più aliene, e alienate. E ancora una volta in costrasto: tanto smaliziata è Clara, quanto rigida negli affetti Eleanor.
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L’amore è una parte fondamentale di Byzantium. Amore tra ragazzi, Eleanor e Frank, malato di leucemia. Eleanor s’è trasformata, dalla morte del tempo, in un angelo della morte, che dispensa lutti solo a persone consenzienti, anziane e prossime, in ogni caso, al decesso, la signora dell’eutanasia che viene coinvolta dalla visione saggia e disperata di vita di questo ragazzo, i cui sogni arrivano al massimo a domani.
Se Eleanor può progettare e fantasticare emozioni che è stata costretta a reprimere, Clara è in fuga per entrambe, dai cacciatori che vogliono ucciderle. L’amore non esiste, per lei, il nuovo mondo, destinato a cambiare intorno a lei, è un posto di merda, in cui sguazzare con l’incoscienza di chi non può cambiare, nemmeno negli affetti. Infatti tutto ciò che Clara fa, lo fa per Eleanor.
Narrazione soffusa, come le luci e il senso di decadenza che solo il mare d’inverno può trasmettere. Emozioni delicate e profonde, che trascinano via lo spettatore dallo scempio coevo in campo letterario. Così autentiche che, ovviamente, stentano a essere accettate.
Perde un po’, soprattutto in cattiveria, nella doppia risoluzione finale, che a tutto lo struggersi comunicato fino ad allora oppone una presa di coscienza alquanto sbrigativa, e di comodo. In pratica non c’è un prezzo da pagare, per il cambiamento.
Byzantium è in definitiva la conferma, oltre che di Neil Jordan, che l’importante, in una storia qualsiasi, non è il tema trattato, ma il modo in cui ci viene proposto.
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