Pubblichiamo la versione integrale dell’intervista di Alessio Mazzucco a Stefano Lucarelli, professore di Economia monetaria internazionale all’Università di Bergamo, comparsa su Linkiesta
Prima Monti, poi la Fornero e Passera, si sono detti ottimisti sull’uscita prossima dalla crisi. Valori economici quali disoccupazione e produzione industriale paiono smentirli: qual è la sua opinione sulle loro dichiarazioni?
La mia prima reazione è stata di incredulità: gli ultimi dati ISTAT (Giugno 2012) infatti indicano che il numero dei disoccupati (2.792 mila) è cresciuto del 2,7% rispetto a Maggio e, soprattutto, registrano una crescita su base annua del 37,5% (761 mila unità). Gli indici ISTAT della produzione industriale corretti per gli effetti di calendario registrano, a Giugno 2012, variazioni tendenziali negative in tutti i comparti. La diminuzione più marcata riguarda il raggruppamento dei beni intermedi (-10,2%), ma cali significativi si registrano anche per i beni di consumo (-8,0%) e per i beni strumentali (-7,5%). Le diminuzioni più ampie si registrano per i settori delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-14,6%), della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-13,1%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi (-12,9%). Nella media dei primi sei mesi dell’anno la produzione è diminuita del 7,0% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quindi non sembrano esserci ragioni per essere ottimisti.
Giochiamo pure a fare l’avvocato del diavolo e ammettiamo che, nonostante il crollo innegabile della produzione industriale, gli investimenti privati in Italia potrebbero aumentare se l’incremento della disoccupazione si traducesse in un contenimento dei costi del lavoro e questi contribuissero a sostenere le esportazioni. Gli ultimi dati sul commercio estero rilevano in effetti un saldo commerciale positivo pari a 2,5 miliardi, con avanzi sia per i paesi extra Ue (+1,5 miliardi) sia per quelli Ue (+1,0 miliardi). Questo però dipende soprattutto dal crollo delle importazioni (-5,8%), con diminuzioni particolarmente rilevanti (in Giugno rispetto al mese precedente) per i beni strumentali (-9,5%) e i prodotti intermedi (-5,1%). Cosa accade alle esportazioni italiane? Nei primi sei mesi dell’anno si è registrata una crescita tendenziale delle esportazioni (+4,2%), questo è l’unico dato che potrebbe giustificare aspettative positive. Eppure in Giugno si è assistito invece ad una contrazione dell’export (- 1,4%) con una diminuzione molto rilevante per quanto riguarda i beni strumentali (-9,5%).
Continuiamo a fare l’avvocato del diavolo e ipotizziamo che le affermazioni di ottimismo di Monti abbiano come oggetto principale non tanto la tenuta economica del nostro Paese, quanto la tenuta istituzionale dell’Area dell’Euro. L’acuirsi della recessione in cui si trova l’Italia è dipesa in questi mesi dall’impossibilità da parte della BCE di intervenire sui mercati primari dei titoli di Stato per bloccare le manovre speculative sugli stessi titoli. Mario Draghi ha dichiarato che la BCE farà di tutto per preservare l’Euro, ma questa dichiarazione non si è tradotta in niente di realmente efficace. Occorre cominciare a fare i conti con un’amara verità: si è perso tempo, il tempo perso non si recupera e si traduce in un incremento dei costi per la tenuta dell’area dell’Euro. L’unione monetaria europea è oggi fragilissima. Invece di consentire alla BCE di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza nell’immediato – e di lavorare per costruire nel futuro prossimo un’Unione Europea dei Pagamenti sul modello della Clearing Union (su questo punto rinvio al III capitolo di Come salvare il mercato dal capitalismo di Massimo Amato e Luca Fantacci)- si è deciso di utilizzare in modo improprio il sistema delle banche nazionali che hanno acquistato in massa i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà potendo prendere a prestito dalla BCE liquidità ad un tasso di interesse dell’1%, e che hanno nel mentre chiuso i rubinetti del credito alle imprese. Tra parentesi questa situazione è estremamente pericolosa perché la concentrazione di gran parte del debito pubblico italiano presso la Deutsche Bank (che negli ultimi tre mesi ha aumentato in portafoglio la presenza dei titoli italiani da 2 a 2,5 miliardi), può tradursi, come si è tradotta nel recente passato, in manovre speculative volte a realizzare plusvalenze sui CDS emessi sul rischio default. Si è perso tempo anche avviando discussioni infinite sul funzionamento del Fondo europeo di stabilità finanziaria e sull’opportunità di emettere gli eurobond. Non vedo dunque ragioni per essere ottimisti sulla tenuta dell’area dell’Euro. Ed anzi comincio a vedere delle ragioni per pensare a un piano di exit strategy. La cosa più nefasta che potrebbe accadere oggi in Italia è una situazione in cui il Paese si trovasse impreparato dinanzi alla necessità di tornare ad una moneta nazionale.
Credo soprattutto che non vi siano ragioni per essere ottimisti se si guarda ad altri dati che solitamente gli economisti non considerano: i dati sui suicidi in Italia. L’ISTAT li ha diffusi in Giugno tenendo a precisare che “Fra i Paesi Ocse, l’Italia registra uno dei più bassi livelli di mortalità per suicidio. Tra il 1993 e il 2009 la mortalità è diminuita significativamente da 8,3 a 6,7 suicidi ogni centomila abitanti, con piccole variazioni su livelli storicamente bassi negli ultimi anni.” Segnalo però che un confronto fra i valori del 2007 e quelli del 2009, dimostra che i suicidi in Italia ogni 100 mila abitanti tra i maschi nella fascia d’età 25-44 passano da 8,6% a 9,3%; tra i maschi nella fascia d’età 45-64 si passa dal 12% al 13,4%. Sono queste le categorie maggiormente colpite dalla crisi in termini di espulsione dal mondo del lavoro (come il signor Angelo Di Carlo, che si è dato fuoco di fronte a Montecitorio questo Agosto), o perché impossibilitati a pagare i propri debiti (come l’imprenditore Luigi Fenzi 60 anni impiccatosi in Maggio). Un altro dato interessante riguarda l’uso di droghe: la Relazione annuale al Parlamento 2012 sull’uso di stupefacenti e sulle tossicodipendenze registra in Italia un consumo del 69,3% di eroina, del 15,3% di cocaina e del 9,2% di cannabis. Il centro studi Prevo.lab di Milano ha stimato per il triennio 2009-2012 un incremento dell’uso di eroina pari al 40%, con prezzi calanti (7 euro al grammo). Questi dati mi fanno venire alla mente Postoristoro il racconto con cui si apre il libro di Pier Vittorio Tondelli Altri libertini. Credo che il presidente del Consiglio e i suoi ministri farebbero bene a leggere quel racconto, perché molte città italiane cominciano sempre più a somigliare a luoghi di disperazione e desolazione.
La Camusso, ripresa da l’Unità, ha chiesto “più stato nell’economia”. La vulgata lectio tende ad associare questa idea alle idee keynesiane. Cosa ne pensa?
La teoria esposta da Keynes nella General Theory, si può riassumere così: “data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell’occupazione complessive dipende dall’ammontare dell’investimento”. Più esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato di fiducia relativamente al rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, e dai fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi fattori sono però quelli che determinano l’investimento, quelli dei quali ci si può fidare di meno, perché sono quelli che sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro. Da questo ragionamento deriva la necessità di far intervenire lo Stato nell’economia. Spesso si ricorda la seguente affermazione tratta dalla General Theory (capitolo 16): “Lo ‘scavar buche nel terreno’ mediante risorse tratte dal risparmio accrescerà non soltanto l’occupazione ma anche il reddito reale nazionale, di beni e servizi utili.” Si dimentica quanto Keynes scrive subito dopo: “Ma non è ragionevole che una collettività sensata accetti di dover dipendere da simili espedienti, fortuiti e spesso distruttivi, una volta che si siano compresi i fattori dai quali dipende la domanda effettiva.
Supponiamo che si adottino provvedimenti intesi ad assicurare che il tasso di interesse sia adeguato al livello dell’investimento che corrisponde alla piena occupazione. Supponiamo inoltre che entri in campo l’azione dello Stato come fattore equilibratore, per far sì che l’aumento dello stock di attrezzature sia tale da avvicinarsi al punto di saturazione ad una velocità che non susciti un gravame sproporzionato sul tenore di vita della generazione presente.
Con questi presupposti immaginerei che una collettività governata con un certo giudizio, fornita di mezzi tecnici moderni, e la cui popolazione non aumenti rapidamente, dovrebbe essere in grado di abbassare fin quasi a zero, nel corso di una sola generazione, l’efficienza marginale del capitale in condizioni di equilibrio; cosicché si raggiungerebbe la situazione di una collettività quasi stazionaria, nella quale si verificherebbero variazioni e progressi soltanto in seguito a variazioni della tecnica, dei gusti, della popolazione e delle istituzioni, e nella quale i beni capitali si venderebbero ad un prezzo proporzionale al lavoro, ecc. in essi incorporato, precisamente secondo gli stessi principi che governano i prezzi delle merci di consumo nelle quali i costi del capitale entrano in misura trascurabile.
Se ho ragione di supporre che sia relativamente facile rendere i beni capitali tanto abbondanti da ridurre a zero l’efficienza marginale del capitale questo può essere il modo più sensato di liberarsi progressivamente di molte fra le caratteristiche più discutibili del capitalismo.”
Quindi l’intervento pubblico che ha in mente Keynes deve innanzitutto essere mirato a disincentivare l’istinto alla tesaurizzazione e alla speculazione che caratterizza i rentier. Non credo la segretaria della CGIL dia all’espressione “più stato nell’economia” il significato che Keynes dà all’espressione “azione dello Stato come fattore equilibratore”.
Il vero problema sta nel fatto che a differenza di quanto scrive Keynes, il nostro Paese non è una “comunità governata con un certo giudizio”: il “giudizio” dei governanti è ottenibile attraverso un’adeguata regolamentazione della cosa pubblica. Non credo che questo risultato possa essere garantito da forme di limitazione della democrazia come quelle che caratterizzano lo scenario contemporaneo in cui la possibilità di esercitare manovre speculative sui titoli di Stato fa sì che le politiche messe in pratica dipendano dal sentiment degli operatori finanziari.
Fassina si è detto critico sui tagli, dichiarando la necessità di un sostegno della domanda aggregata tramite la spesa pubblica. Può fare un’analisi della visione economica del Pd, partendo proprio dalla posizione, se mi permette “keynesiana”, del responsabile dell’economia?
Dichiarare la necessità di un sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica è un principio che un politico deve tradurre in scelte trasparenti e coraggiose. Il Pd ha avuto la possibilità di esprimere in Parlamento l’opportunità di organizzare la così detta spending review secondo una prospettiva – diciamo così – keynesiana, facendone un piano economico volto a riorganizzare il bilancio dello Stato per spostare risorse da certi settori ad altri, in grado così di sostenere la domanda effettiva.La spending review invece si è tradotta in tagli privi di una logica. La posizione del Pd è stata quanto meno ambigua. Stefano Fassina è un politico che ha una formazione seria da economista. Le sue posizioni e le sue dichiarazioni più recenti non mi paiono in linea con le posizioni e le dichiarazioni del segretario del Pd.
Su Linkiesta si è acceso un dibattito che ha avuto la sua scintilla nell’intervento di Vitale, seguito da Bisin. Il professor Bisin, in particolare, taccia la discussione tra neo-liberisti e keynesiani come “provinciale” ed emargina “i neo-marxisti, i keynesiani e gli sraffiani” nelle riserve indiane di molti atenei universitari. Insomma, dice che è una discussione inutile. E’ d’accordo? Esiste ed è importante questo dibattito? Su quali punti si giocano le differenze tra le scuole?
A differenza del professor Bisin credo che nella teoria economica la dimensione ideologica conti moltissimo. Questo è un tema fondamentale su cui molti economisti si sono cimentati da Schumpeter a Dobb, da Joan Robinson a Milton Friedman. Un’ideologia costituisce o implica un punto di vista filosofico-sociale, nell’ambito della teoria economica. Dobb pone in rilievo il fatto che la distinzione tra l’analisi pura del processo economico e la visione di esso, inevitabilmente condizionata dall’ideologia, non possa essere sostenuta a meno di non circoscrivere la prima a un complesso formale di enunciati; tuttavia la “teoria economica” è un complesso di enunciati sostanziali sulle relazioni reali della società economica. Dunque, porre l’attenzione sulle relazioni reali che caratterizzano la società significa fuoriuscire da un ambito prettamente logico-analitico per assumere un punto di vista filosofico-sociale. L’ideologia va qui intesa come qualcosa che costituisce o implica un punto di vista filosofico-sociale, nell’ambito della teoria economica.
Sono invece d’accordo con il professor Bisin circa l’inutilità di focalizzarsi sulla dicotomia neoliberisti-keynesiani. Come ho già avuto modo di scrivere sono molti gli ambiti di ricerca nell’economia mainstream talmente vari da rendere estremamente complessa l’individuazione di un nucleo analitico comune e di una riduzione del mainstream al neoliberismo. Si può però dire che normalmente gli economisti impostano le proprie analisi ritenendo che nel breve periodo esistano delle rigidità nei mercati (a loro volta ricondotte a rigidità dei prezzi). In questo particolare senso si riconosce la rilevanza dei fattori istituzionali. Sono molto diffusi modelli costruiti a partire da un atteggiamento pragmatico che pretende di modificare le basi microeconomiche degli aggregati macro, a partire però dal terreno imposto dalla scuola di Chicago che ritiene che gli agenti economici siano in media razionali. Essi sono però giustificabili solo se si hanno a disposizione banche dati in grado di stimare nessi causali significativi in senso econometrico. Sul versante empirico ciò ha condotto ad una vasta produzione di materiale statistico impiegato nelle analisi degli econometrici, dal grado di monopolio dei sindacati, al grado di scolarizzazione dei lavoratori, a caratteristiche specifiche degli agenti presenti sui mercati, alle caratteristiche dei sistemi elettorali, agli indici di corruzione dei governi. Parallelamente, sul versante teorico si assiste all’introduzione di concetti – descrivibili a mezzo di funzioni matematiche – che conducono ai così detti fallimenti del mercato: le asimmetrie informative, le esternalità (sia positive che negative), i beni pubblici. Non ci si limita a essi, ma si accettano anche i fallimenti dello Stato. Sono possibili diverse calibrazioni del modello che possono condurre a equilibri instabili o addirittura multipli. Nel lungo periodo, tuttavia, i fattori di disturbo tenderebbero a riassorbirsi, dando luogo ai risultati tradizionali.
È molto diffusa l’idea che affinché un sistema economico sia in salute si debba innanzitutto contenere il tasso di inflazione. La regola di Taylor, o le sue varianti che servono a sostenere la necessità di un banchiere centrale conservatore o la costituzionalizzazione dell’avversione all’inflazione, possono essere comprese richiamando la teoria quantitativa della moneta. Tuttavia nessuno crede più alla possibilità di controllare direttamente la massa monetaria, l’idea dominante (il New Consensus) è piuttosto che il tasso di interesse possa essere uno strumento di controllo indiretto dell’inflazione. Ciò presuppone che si ragioni come se esistesse un tasso “naturale” di interesse, compatibile con il tasso di crescita di steady state in cui si ha un livello di pieno impiego delle risorse. In tal senso abbiamo piuttosto a che fare con una variante wickselliana della teoria della moneta neoclassica. Un esito questo che conduce in un terreno di confine con approcci spuri in cui nel breve periodo possono aversi risultati non efficienti.
È molto diffusa anche l’idea che solo la flessibilità dei prezzi (e dei salari) possa garantire l’efficienza dei mercati. È tuttavia vero che dopo la crisi del 2007 anche gli economisti del Fmi hanno riconosciuto che quei paesi che hanno adottato riforme strutturali del lavoro tese ad introdurre maggiore flessibilità per alcune tipologie contrattuali (specificatamente i lavori a tempo determinato), pagano un prezzo maggiore in termini di aumento della disoccupazione. Si è dunque diffuso un cauto scetticismo sulla presunta capacità di tali riforme strutturali di generare occupazione.
Qualcosa dunque all’interno dell’economics sembra muoversi, conducendo gli studiosi, per lo più inconsapevolmente, a recuperare alcuni aspetti delle teorie alternative e soprattutto a non credere che il laissez faire possa essere sempre la soluzione ottimale. Se poi si guarda alle politiche economiche messe effettivamente in atto, bisogna distinguere tra ciò che un’istituzione dichiara di fare e ciò che fa in pratica, cioè tra il modello in cui dichiara di credere e le regole che realmente segue per perseguire gli obiettivi che realmente persegue. Basta guardare alle politiche monetarie messe in pratica dalla Fed e dalla Bce nell’ultimo decennio.
Ciò non significa tuttavia che la teoria economica dominante, anche nelle nuove vesti che dimostrano il suo stato di crisi, non sia da sottoporre a critica. E ciò non significa che le critiche di Marx, Keynes e Sraffa perdano di incisività, anche se oggi «i più giovani e meglio attrezzati» non possono limitarsi ad esse. Non lo possono fare soprattutto perché le linee di ricerca marxiane, postkeynesiane e sraffiane sono minoritarie, e di questo probabilmente sono responsabili anche i maestri delle scuole eterodosse che, come ha riconosciuto il professor Luigi Pasinetti nel suo ultimo libro Keynes e i keynesiani di Cambridge, sono stati poco saggi. Eppure gli economisti che si rifanno a queste tradizioni hanno prodotto e producono dei lavori scientifici molto validi anche se non trovano sbocco sulle riviste che alcuni professori del MIT e di Chicago considerano prestigiose. Consiglio al professor Bisin, e a tutti coloro che desiderano esprimersi circa lo stato di salute delle scuole economiche eterodosse, di leggere attentamente le ricerche del Levy Economics Institute of Bard College e di prestare attenzione alle ricerche dell’Institute for New Economic Thinking.
Non voglio esprimere considerazioni superficiali sulle scuole economiche, in particolare su quelle eterodosse. L’immagine che il professor Bisin dà degli economisti non mainstream è caricaturale. In tal modo malauguratamente compie lo stesso errore di chi riduce al neoliberismo la teoria economica mainstream.
Qualche hanno fa insieme a Marco Passarella ho tradotto per un editore italiano il bellissimo libro di Marc Lavoie (un grande tra gli economisti postkeynesiani), An Introduction to Post-Keynesian Economics, edito da Palgrave nel 2006. Marc Lavoie scrisse per l’edizione italiana anche un capitolo aggiuntivo sulla crisi del 2007. L’editore fu poi coinvolto in una ristrutturazione aziendale che lo condusse ad abbandonare il progetto. Ho proposto negli anni a venire ad altri importanti editori il libro senza fortuna. Chiunque volesse studiare seriamente la teoria economica focalizzandosi sugli strumenti più attuali impiegati dagli economisti critici più seri dovrebbe studiare il libro di Lavoie.
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