Ci si mette pure il calendario a sottolineare l’eccezionalità dell’evento: il nuovo esordio è previsto per mercoledì contro Caserta, ovverosia la stessa squadra affrontata da Dan Peterson prima del suo ritiro. Era il 25 aprile del 1987 e l’Olimpia, battendo l’allora Mobilgirgi Caserta di Oscar, Gentile ed Esposito conquistava la terza vittoria nella serie playoff di finale e, con essa, il suo ventitreesimo scudetto.
Il tecnico bolognese lascia così l’Olimpia senza troppi rimpianti: 131 partite ufficiali (94 in campionato, 1 in Coppa Italia, 36 in Eurolega) con un bilancio di 69 vittorie (55 in campionato e 14 in Eurolega) e 62 sconfitte, senza praticamente riuscire a mostrare un gioco efficace (anzi, per molti s’è visto solo un gioco offensivo, dove con “offensivo” non si fa certo riferimento all’attacco). Non si possono dimenticare due grandi imprese dell’Eurolega 2008-09, con l’epico trionfo del 3 dicembre 2008 sul CSKA Mosca campione d’Europa e, poche settimane più tardi, la vittoria sull’Olympiacos, ma il senno di poi impone di considerarli episodi estemporanei. Aldilà delle cifre (che comunque condannano il lavoro di Bucchi: in casa Olimpia hanno fatto peggio di lui solo allenatori che hanno lavorato in condizioni molto più difficili rispetto all’attuale gestione Armani), a gettare molte ombre sull’operato dell’ex coach sono le prestazioni di troppi giocatori che, passati in biancorosso, non sono riusciti a esprimere le doti mostrate altrove. Caricato della responsabilità di gestire il mercato a partire dalla seconda stagione, Bucchi si è anche mostrato incapace di costruire una squadra adatta alle sue esigenze. Si pensi per esempio al cambio sistematico che, dai playoff della scorsa stagione, è diventato la cifra dell’organizzazione (…) difensiva milanese: per attuarlo efficacemente occorrono esterni fisici e lunghi atletici, definizioni che a fatica si adattano a Finley e Pecherov, per fare due nomi.
L’esperienza di Bucchi in biancorosso è stata negativa anche dal punto di vista della comunicazione, con interviste sempre improntate all’analisi “psicologica” delle partite - il mantra dell’”intensità” - e all’autoassoluzione, con sconfitte spesso giustificate dagli infortuni, dal rientro dagli infortuni (che toglierebbero equilibrio), dal budget (che però non spiegherebbe le sconfitte con squadre più “povere”), dal caso. Se a qualcuno è venuta in mente la celebre scena di John Belushi in Blues Brothers (le cavallette!), sappia che non è l’unico.