1. “anzi d’antico”. Si avverte nell’aria un tentativo di mutamento. Quello solito all’italiana, ben descritto da Tomasi di Lampedusa nel suo celebre romanzo. Ci si può però rifare anche a Graham Greene e al suo “Un americano tranquillo”, ottimamente portato sullo schermo dall’australiano Noyce nel 2002. La vicenda si svolge negli anni immediatamente precedenti la sconfitta definitiva francese in Vietnam nella battaglia di Dien-bien-phu (1954). Gli Usa tramavano per la sconfitta dei francesi e nel contempo cercavano la via per frapporre ostacoli alla completa conquista del paese da parte dei “comunisti”. Si mise in piedi una “terza forza”, dichiaratasi anticolonialista, indipendentista, ecc., ma amante della “libertà e democrazia” (quelle di cui gli americani sono tanto amanti da massacrare coloro che non ne sono entusiasti). Agenti della Cia foraggiavano e organizzavano segretamente (ma non poi troppo) questa terza forza e, nello stesso tempo, organizzavano sanguinosi attentati da attribuire ai comunisti. Come andò a finire è ben noto: ci vollero altri vent’anni per cacciare dal paese asiatico i “democratici e liberatori”. Ma la storia non è stata poi molto ben scritta e sussistono tanti lati oscuri; soprattutto per chi vuol continuare a chiudere gli occhi e magari a vedere in quell’evento il ripetersi della storiella di Davide che batte Golia.
Non è però di questo che intendo parlare. L’importante è capire che gli americani si resero conto dell’ormai inadeguata politica coloniale francese e soprattutto non ebbero alcuna intenzione di lasciare alla Francia (che con l’Inghilterra era stata di fatto battuta nella seconda guerra mondiale, pur apparendo fra i vincitori contro gli sconfitti aperti: tedeschi e giapponesi; sugli italiani stendiamo un velo pietoso) di continuare a svolgere un ruolo di potenza. Il mondo era bipolare e nessun evento doveva minimamente contraddire tale configurazione. D’altra parte, la Francia era parte del “mondo libero”, era un paese alleato contro l’“Impero del male” (Urss, ecc.). Bisognava ad essa sostituirsi nel paese asiatico ma senza che ciò apparisse come una semplice e brutale intrusione statunitense. Si creò dunque una terza forza, che si dichiarava pomposamente anticolonialista e dunque antifrancese; una forza del tutto finanziata, organizzata e armata dagli Usa, ma senza che ciò apparisse. La terza forza affermava decisamente il suo anticolonialismo (quello francese, vecchio e ormai malandato), ma nello stesso tempo non poteva accettare che il Vietnam cadesse sotto un altro predominio, quello dei comunisti che erano, sempre così si diceva allora (e ancor oggi in sede storica), “servi di Mosca”. E così si provò a far passare il Vietnam nel campo di predominio degli Usa.
2. E’ però bene prestare attenzione ad un fatto ben preciso, quello che interessa oggi come ieri il campo della politica in quanto impasto di inganni multipli. Nei momenti di stabilità del potere esercitato da dati gruppi dominanti (in sede internazionale o all’interno di ogni paese), le posizioni degli antagonisti in conflitto sembrano sufficientemente chiare. I dominanti affermano ideologie, applicano politiche (alimentate da tecniche), formulano teorie, con estrema chiarezza e fanno passare i loro interessi per quelli generali (del paese o del gruppo di paesi di fatto controllati da uno di loro situato in posizione centrale). Coloro che si oppongono ai dominanti – e che non sono i sedicenti dominati, perché questi non agiscono realmente, soltanto si agitano, se non si sono formate determinate élites che li rappresentano (anche in buona fede!) – apprestano teorie, ideologie, svolgono politiche chiaramente contrapposte tese a rovesciare quel predominio. Ripeto che ci sono elementi di sincera credenza nel riscatto degli apparenti rappresentati, ma le élites, che si battono per i dominati, restano tali (magari autodefinendosi con convinzione loro avanguardie).
Ad un certo punto il conflitto – certo perché si sono verificati mutamenti sostanziali nelle configurazioni sociali interne al paese e nelle relative posizioni dei vari paesi – rompe la superficie di equilibrio caratterizzante una fase storica; ne inizia così una di trapasso, di assai grande incertezza, di squilibri ormai evidenti che creano disagio crescente fino, spesso, al drammatico svoltare delle situazioni di predominio e subordinazione dei gruppi sociali, dei paesi, ecc. Simili cambiamenti vengono sempre presi dai più superficiali come effetto di più o meno notevoli trasformazioni culturali. Mentre invece, nel corso di queste ultime, si cerca in realtà di pensare le migliori soluzioni (teoriche, ideologiche, politiche, ecc.) per adeguarsi allo squilibrio di transizione legato all’acutizzarsi del conflitto, alla debolezza crescente dei vecchi gruppi dominanti e al rafforzamento delle nuove élites formate o in formazione.
Si producono allora – in genere con accelerazione del processo – diversificazioni multiple sia delle posizioni dei vecchi dominanti sia di quelle delle “avanguardie”. E tale diversificazione è del resto frutto dello squilibrio conflittuale, che rende a lungo incerto il risultato finale rappresentato dall’affermazione di nuovi gruppi dominanti, con il restaurarsi di una situazione di relativa e temporanea stabilità (sempre sottesa dalla lotta, sia chiaro). Nella transizione le vecchie formulazioni si scindono perché gruppi diversi dei vecchi dominanti affrontano in modo differente il problema della sopravvivenza della loro primazia. Lo stesso fenomeno di “dispersione” si verifica pure nelle forme culturali affermatesi presso i gruppi che si oppongono alla continuazione del vecchio predominio.
3. L’interessante è che sia nei vecchi gruppi dominanti sia in quelli che li contestano più apertamente (con vari intenti di trasformazione, più o meno vasti e incisivi) emergono – processo i cui “soggetti” attivi appartengono ad uno specifico ceto addetto a sfornare idee – determinati orientamenti (teorici, ideologici, politici, scusate la ripetizione) che sviluppano critiche all’ordinamento sociale e culturale precedente. E’ assai difficile orientarsi in simili contesti di lotta. Nuovi gruppi (rappresentati da nuovi “soggetti” del ceto intellettuale) propendono per un radicale mutamento di tale ordine, e in tale intento cercano la via per inserirsi nel movimento di “masse” che può verificarsi per una situazione di reale disagio generale che accompagna lo squilibrio e la lotta in corso, vissuti dalla “gente” come confusione, “rumore” (nel senso della teoria dell’informazione) troppo assordante, ecc. Altri si muovono per l’attuazione del sopraddetto cambiamento gattopardesco.
Si deve stare molto attenti perché troppo spesso tale definizione sottintende una trasformazione solo apparente, quasi immaginaria, mentre tutto resterebbe com’era. Errore fondamentale. Quando il Regno di Piemonte, alla fine, si estese a tutta l’Italia, con buona pace del Principe di Salina non rimase tutto com’era, non restarono al potere coloro che c’erano prima, le politiche svolte (sul piano interno, con il loro precipitato istituzionale, e quelle verso l’estero con i loro spostamenti di alleanze e conflitti tra paesi, ecc.) non furono più quelle di prima. Semplicemente, l’Italia rimase un paese di secondo rango, i gruppi dominanti ritardarono sempre l’effettivo suo ammodernamento, e sempre fummo delle banderuole nel corso di tutti i conflitti internazionali; e via dicendo. Il popolo si atteggiò sempre all’insegna dell’“arte di arrangiarsi”, che del resto, nella sostanza, fu lo stesso comportamento dei gruppi dominanti. Ci fu qualche tentativo di conquistare una nuova dignità effettivamente nazionale e di “paese”; tentativi condotti in modo più che altro roboante e talvolta macchiettistico, comunque falliti miseramente; e quelli che li fecero fallire non furono mai i veri gruppi interessati ad una reale trasformazione del paese, ma quelli sempre alla ricerca di nuove servitù, di nuovi “liberatori”.
E simili processi si sono riverberati in campo culturale, ove si sono via via formati rumorosi aggregati di intellettuali sempre addetti alla copertura dei gruppi dominanti italiani (dominanti nel paese, servi sul piano internazionale). Non dico che non ci siano stati alcuni isolati individui, o anche piccoli gruppi, di valore, degni di attenzione. In genere, però, sono stati soffocati dal “cialtronismo” assai più incisivo e pressante dei più. Quelli di valore sono stati ignorati – specialmente in campo scientifico perché la scienza è la più conculcata nei paesi dei gruppi apparenti dominanti ed effettivi servitori – altri hanno fatto da vetrina, tanto per permettere ai cialtroni di fingersi portatori di nuove istanze.
Non sto a diffondermi adesso sul ’68 italiano, una delle più squallide “rivoluzioni” mai verificatesi in questo “pauvre pays”: voleva addirittura essere politica oltre che di costume con il “progressismo” di autentici imbonitori, che hanno finto di ergersi a difensori dei “diversi”, degli “emarginati”, dei “senza voce”, ecc. producendo uno dei più indegni decadimenti culturali della nostra storia. E questi miseri individui – in un certo senso non troppo male “pitturati” nel pur modesto film “La grande bellezza” – hanno approfittato di manovre di radicale cambio del servitorame italiano nei confronti dei predominanti Usa. Negli anni ’70 sono state messe in opera le due più incisive operazioni, affermatesi però con una progressione pluridecennale. Da una parte, l’ossessivo e ormai fuori tempo antifascismo – dopo aver favorito l’ultima “ingegnosa trovata” di voler far passare l’Italia sconfitta nella seconda guerra mondiale da nazione vincitrice (per un semplice voltar della banderuola) – ha mutato la Resistenza in una semplice guerricciola di “liberazione” dalla dittatura, una dittatura condotta da “bambini e ingenui” rispetto all’antidemocraticità, alla prepotenza, alla mancanza di qualsiasi minima trasparenza, degli imbroglioni presentatisi quali antifascisti in quei ferali anni ‘70 della Repubblica italiana.
La seconda operazione, su cui non mi dilungo perché l’abbiamo ormai analizzata e discussa a lungo in questi anni, è il cambio di campo del Pci (da quello presunto socialista a quello atlantico, cioè statunitense), attuato con cautela, prudenza, attendendo l’evolvere infine disastroso dei processi in corso “ad est”. Tale manovra – che ha avuto un momento saliente nel 1978 con un ben noto viaggio mentre si consumava l’altro evento cruciale rappresentato dalla liquidazione non soltanto di un uomo (Moro), ma di una linea del governo italiano di allora, pur sempre filo-atlantica e tuttavia non congrua nel caso, poi verificatosi, di dissolvimento di uno dei due “poli” mondiali in antagonismo – è stata ancora più importante della precedente, pur se ad essa collegata. E’ stata creata una schiera di fedeli servitori ad oltranza dell’unica superpotenza rimasta; si è trattato di gruppi di ben scarsa capacità imprenditoriale in grado di annientare progressivamente il tessuto industriale strategico italiano e, soprattutto, di appoggiare i rinnegati del piciismo, i nuovi filo-Usa, nell’affondare ogni nostra possibilità di minima autonomia.
A contrastare il successo di queste operazioni si è eretto un personaggio di indubbiamente poche virtù (parlo di quelle politiche), che ha consentito di mascherare il sempre crescente tradimento del paese, il suo ridursi ad appendice degli Usa, dietro la demenziale diatriba tra fautori e negatori del suddetto, senza più politica alcuna, con il ridicolo contrapporsi di puramente nominali “destra” e “sinistra”, ormai prive di ogni connotato storico-politico attribuibile a tale distinzione. E in questa operazione si è venuto creando quello che ho definito da tempo “ceto medio semicolto”, un ceto in gran parte composto da pseudo-intellettuali; appunto i putridi “prodotti” del degrado sessantottardo (e, in Italia, quello ancora peggiore del ’77), sempre urlatori “ultrarivoluzionari” che con i loro schiamazzi, poi diminuiti a semplice “progressismo”, hanno accompagnato l’ultimo ventennio di annientamento del tessuto sociale ed economico del paese. Alla virulenta e “definitiva” lotta per rovesciare la classe “borghese” hanno sostituito i balbettii femministi (così inferiori al proto-femminismo di un secolo fa), i sussulti contro la presunta omofobia quale semplice paravento di una confusione “di genere”, parallela alla confusione del trapasso politico verso i lidi del più completo servilismo nei confronti degli Stati Uniti. E altre “piacevolezze” consimili.
Il successo delle loro idiozie culturali, dei prodotti di cervelli ormai regrediti a livelli infantili, è stato coltivato dai politici del rinnegamento del precedente orientamento ideologico (il “piciismo”), i quali erano i corifei della GFeID (grande finanza e industria decotta, che successivamente denominai “i cotonieri”; e spero i lettori si ricordino il perché), la quale a sua volta, dopo aver appoggiato le decisioni di liquidare progressivamente i settori più moderni dell’industria “pubblica”, è stata il portavoce di ambienti statunitensi in Italia.
4. E veniamo allora al cambiamento oggi in corso. Dei motivi profondi – e internazionali – del “passaggio di fase” parleremo in un articolo successivo. Qui mi limito all’aspetto dei mutamenti in corso nel ceto intellettuale di riferimento dei servi italiani e del “padroni” statunitensi. Questo ceto intellettuale, come già rilevato, è composto al 90 % da personaggi o da sempre legati al Pci (quelli, però, dei tempi del suo cambio di campo, non più quelli tipici degli anni ’50 e ’60, di ben altro calibro e onestà politica e di pensiero) o da residuati del movimento gruppuscolare degli anni’70, animati (in alcuni casi, credo pure in buona fede) dall’esigenza di combattere l’influenza piciista nel “movimento operaio” onde riportare quest’ultimo – creduto pur sempre il soggetto di una possibile, anzi vicina, rivoluzione – sulle posizioni più consone ad innescarla infine dopo tanti anni di compromesso. E’ tutta una storia che sarebbe da rifare a partire già dal dopoguerra e dalla togliattiana “svolta di Salerno”, forse non ancora ben compresa nei suoi reali connotati di fondo.
Il ceto intellettuale, legato al Pci e movimentini “comunisti” vari negli ultimi 40 anni, è stato particolarmente debole proprio sul piano ideologico e culturale. Ha interpretato il ruolo politico dell’intellettuale, fingendo di volerlo sganciato dalla funzione di sudditanza al partito – secondo i canoni precedentemente in voga in tutto il comunismo internazionale – ma si è in realtà subordinato alle istanze dei peggiori rigurgiti imprenditoriali di tipo “cotoniero”. Non tutti ne erano pienamente consapevoli, probabilmente qualcuno pensava effettivamente di contribuire ad un rivoluzionario rinnovamento culturale (e ideologico) dell’intellettualità non più dipendente dalle direttive di partito. In realtà, ci si è buttati in un’orgia di creazione di mode effimere, non prima di avere contribuito all’affossamento del marxismo quale scienza – e quindi “potenzialmente” soggetto a ripensamenti radicali in seguito alle esperienze fallite, potenzialità senza dubbio mai sfruttata con vera adeguazione di questa teoria ai mutamenti storico-sociali in corso – proponendo, come vero rinnovamento di quel pensiero, la scoperta dei “Grundrisse” – appunti di riflessione di Marx, antecedenti la sua più matura opera, Il Capitale, presi per il suo “più vero pensiero”.
D’altronde questi presuntuosi e arroganti nuovi intellettualini “da passeggio” sono stati malamente contrastati da vetero-marxisti di una ortodossia (in genere economicistica) di impossibile sopportazione. Negli anni ’70, questo scontro ha accompagnato gli “anni di piombo”, in cui alla degenerazione della teoria di riferimento si accompagnava una scissione della politica comunista: da una parte, alcuni gruppi di improbabili “guerriglieri” (ampiamente strumentalizzati), dall’altra l’operazione di trasformazione del comunismo in “sinistra” (forse il peggiore dei nemici per i comunisti anni ’50 e ’60). Un’operazione condotta in parallelo con una reinterpretazione miserabile, e in mala fede, degli obiettivi della Resistenza (per l’80% guidata dai comunisti, come affermato da Cossiga) ridotta, da anelito al cambiamento sociale (rivelatosi illusorio e impossibile per noti motivi), a lotta antifascista per la “liberazione” del paese, attuata semmai dalle truppe angloamericane, non certo da poche bande partigiane situate al nord. Si è trattato di quell’antifascismo da considerare la continuazione, sia pure in salsa repubblicana, di quello del tradimento badogliano e savoiardo. Un antifascismo che ha caratterizzato tutti i peggiori passaggi italiani verso un più completo servaggio italiano agli Stati Uniti, quello voluto dai nostri “cotonieri” della Confindustria e che ha contribuito al progressivo smantellamento dell’industria “pubblica”. Ma questo rinviamolo ad altro intervento.
Gli ultrarivoluzionari (in specie di estrazione “operaista”) di quegli anni hanno contribuito, ideologicamente, a tale passaggio distruttivo. Appunto, totale svisamento del marxismo – invece che rinnovamento e revisione radicale di una scienza invecchiata – con l’iniziale lancio di una serie di mode “culturali” del tutto vuote e aberranti, ognuna delle quali durava sui due-tre anni: Marx più Nietzsche o Heidegger, Marx più Foucault, Marx più Luhmann, addirittura Marx più Bateson o Maturana e Varela o Thom (teoria delle catastrofi), ecc. Un’orgia propiziata dal vergognoso revirement di case editrici come l’Einaudi, la Feltrinelli, dall’opera di “raffinata cultura” dell’Adelphi, con la Manifestolibri o anche gli Editori Riuniti arrancanti e ansimanti dietro a queste mode. E poi ovviamente quasi tutte le altre case editrici e le varie riviste, e via dicendo.
Alla metà degli anni ’80 si ha il grande appoggio di una schiera di demenziali e ben appostatisi “operaisti” all’effimera ondata della “qualità totale” alla Fiat (cioè il toyotismo od ohnismo) accompagnato, una volta crollati il “socialismo reale” e l’Urss (1989-91), dall’altra idiozia della previsione secondo cui il Giappone della (presunta) trionfante industria automobilistica avrebbe nel secolo successivo superato gli Usa, avviati invece verso una posizione che, per una decina d’anni, è stata perfino largamente monocentrica (cioè “imperiale”) data la loro superiorità nei settori strategici della terza rivoluzione industriale (mentre l’auto mostrava tutti i caratteri dell’industria “matura”, proprio come nei primi decenni del dopoguerra era l’industria tessile o delle fonderie ad essere “matura” in confronto al metalmeccanico dell’auto o degli elettrodomestici, ecc.).
5. Negli ultimi vent’anni (quelli successivi all’opera distruttiva di “mani pulite” e dell’antiberlusconismo forsennato) si ha infine lo sbocco necessitato dell’intero processo con lo spappolamento cerebrale di quel ceto intellettuale “di sinistra” divenuto ormai solo “progressista” e politically correct con tutte le scemenze delle correnti di ammodernamento dei costumi; in particolare sessuali, in carattere con il pensiero divenuto, mi si passi la volgarità, quello sceso al livello degli organi preposti a dati “servizi”. A questo punto, sia il ceto politico “di sinistra” (il cui nucleo centrale era costituito dai rinnegati del Pci) sia il suo ceto intellettuale d’appoggio non hanno saputo corrispondere, pur prodigandosi nei servigi, ai disegni strategici dei predominanti statunitensi. Ormai troppo degenerati e troppo stupidi. Una classe dirigente di stampo confindustriale, degna erede dell’agnellismo, ha fatto tutto il possibile per sponsorizzare e i politicanti e gli intellettualoidi di questa becera e semicolta “sinistra”. Ma miserabili erano gli imprenditori (“cotonieri”), miserabili i loro finanziati nella sfera politico-ideologica.
Messi alla frusta da più che evidente sussulti multipolari, gli Usa tentano cambiamenti strategici, ancora non ben compresi da noi, che non riusciamo quindi ad afferrare bene se un certo caos – e fallimento, almeno apparente, di certe loro manovre politiche o anche belliche – sia tutto sommato voluto o semplicemente l’effetto collaterale del cambio di passo strategico implicante una serie di perdite di controllo. Resta il fatto, che si avvertono – nei centri strategici statunitensi – segnali di insoddisfazione del quadro politico italiano con riflessi di second’ordine su quello intellettuale. Da qui sono nate l’incertezza e la confusione caratteristiche degli ultimi tre anni almeno. Di questi problemi, soprattutto politici, parleremo in altra sede. Qui mi limito a segnalare che si stanno producendo spinte atte a produrre cambiamenti di atteggiamento nei confronti di dati intellettuali, sottoposti a crescenti critiche a volte perfino irridenti e assai “irrispettose”.
E’ necessario non farsi ingannare. Non c’è alcuna volontà – anche perché non si è trasformata la “classe” pseudo-dirigente dei “cotonieri” – di lasciare il passo a chi veramente pensa e cerca di fare opera di scienza o arte o filosofia, ecc. Si stanno cercando nuovi segugi di una cultura via via più anemica, atta ad accompagnare un mutamento politico che si sta producendo con molta fatica, con grande affanno. Abbiamo nuovi aspiranti “maîtres à penser”, mediocri nella loro presuntuosità, al di sotto di ogni possibile previsione pessimistica anche soltanto cinque anni fa. E anche loro, come i precedenti, si affollano nelle schiere dei “critici critici”. Non più la “rivoluzione proletaria”, nemmeno le “moltitudini” in sommovimento. Comunque critiche al capitalismo, ma quello cattivo, quello finanziario, il babau di turno. Più altri nemici un po’ dappertutto salvo che negli ambienti (in specie democratici) americani, che sono i veri ispiratori delle varie operazioni italiche (come lo furono di “mani pulite”, dei tentativi agnelliani di dare il governo ai rinnegati del piciismo, dell’imbragamento completo di Berlusconi, dell’impropria rielezione di un certo loro fiduciario in Italia, ecc. ecc.). Questi nuovi “spietati critici” tutto contestano salvo tali ambienti (“progressisti”) americani; anzi rispolverano in nuova versione, appena appena rimodernata, correnti un tempo assai più che dignitose – un solo esempio: il keynesismo – quale copertura del loro blaguer.
Se dovesse riuscire – e penso di sì, alla fine dovrebbe per l’essenziale riuscire – il passaggio di fase politico che si sta tentando tramite Renzi, con il sostanziale assist del cavaliere, di nuovo elettoralmente in sella, assisteremo anche ad un notevole ricambio all’interno del ceto intellettuale. Nessun rimpianto per vecchi “residuati”, un tempo di qualche incisività e oggi penosi nel loro ruolo di astiosi barbogi; tuttavia, i nuovi non saranno migliori. Diversi, questo sì, ma questo servirà a protrarre ancora l’inganno perpetrato da un ceto intellettuale – che da quarant’anni si distingue per la sua indegnità di pensiero – ai danni di una popolazione sempre più beota e indifesa di fronte a mezzi di comunicazione tutt’altro che eccelsi.
Questi nuovi virgulti del pensiero italico occuperanno presto i vari posti prima riservati ai “sinistri” intellettuali accoccolatisi nelle comode poltrone riservate loro dai gruppi (sub)dominanti italiani “privati”, i già più volte nominati “cotonieri”. Un certo numero di loro dilagherà pure negli apparati amministrativi statali, nei vari Ministeri, alcuni li troveremo al governo (un diverso governo logicamente). Cercheranno di contribuire all’ulteriore indebolimento delle imprese “pubbliche”; che, come ricordato più volte in tanti anni di analisi, non sono rilevanti per questa loro caratterizzazione proprietaria, bensì perché appartengono a settori fondamentali, strategici. E così rinsalderanno la servile complementarietà dei settori economici italiani rispetto a quelli statunitensi, con ciò favorendo una destrutturazione dei raggruppamenti sociali e la formazione di forti nuclei ben organizzati e decisi a mantenere una situazione di netta dipendenza dagli Usa.
Un ventennio sembra comunque vicino alla fine. Il passaggio resta difficoltoso e aperto a varianti non del tutto prevedibili. In simili situazioni di transizione, la confusione è notevole, possono verificarsi strappi nel tessuto sociale, il malcontento dei politicanti e intellettualoidi della passata “gestione” sarà forte e provocherà qualche difficoltà all’attività tesa ad una nuova compattezza con ulteriore rimbecillimento della popolazione. E’ necessario inserirsi in qualche cuneo che verrà a crearsi, prestando debita attenzione a non cadere ancora una volta nel tranello dei falsi “critici critici”. Costoro si agiteranno ancora più vorticosamente di quelli del passato, proprio perché ci avviciniamo a fasi di più intenso scontro multipolare e l’Italia assumerà più alta importanza per gli Usa in quest’area. Il compito fondamentale da assumere oggi con decisione è particolarmente difficile, troverà nemici ancora più decisi di ieri. Si assuma tale consapevolezza e ci si guardi dai tromboni che tuonano contro tutto e tutti salvo che nei confronti della dipendenza dagli Stati Uniti. Questi tromboni sono la nuova peste; la disinfestazione sarà dura ma deve essere la più radicale possibile. Addosso a questi imbroglioni, sempre eguali in tutte le epoche e in tutte le generazioni di servi. E a chi se ne fa portavoce tra noi, calci nei posti appropriati.