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C’è un biscotto nel nostro futuro

Creato il 18 agosto 2014 da Albertocapece

biscotti “E’ mattina nella contea di Mitchell, in Iowa. Il cielo è grigio e dorato e Christina Dreier manda il figlio Keagan all’asilo senza colazione. Il bimbo ha 3 anni, è paffuto e testardo e di solito si rifiuta di mangiare il pasto gratuito a cui ha diritto a scuola. Ma la dispensa di casa è quasi vuota e Dreier tenta la carta della severità: se Keagan ha fame, magari non farà più storie davanti alla colazione gratuita della scuola e a casa ci sarà più cibo per il pranzo”.

Non c’è saggio sociologico che possa eguagliare il coacervo di illusioni, disillusioni e assenza di pensiero che si srotolano come un inquietante tappeto in un articolo del National Geographic di agosto, sul “Nuovo volto della fame” negli Stati Uniti. Soprattutto non c’è che io sappia, un articolo che tanto limpido squallore riproduca l’afasia politica e intellettuale di un Paese e imiti per mancanza di domande e risposte proprio il mondo del piccolo Keagan, nuovo e inconsapevole povero e tuttavia già così neoliberializzato da rifiutare il pasto a scuola. Per la verità l’articolo viene presentato  proprio con una domanda: “Perché c’è gente malnutrita nel Paese più ricco del mondo?” Interrogativo fondamentalmente ambiguo perché con  malnutrizione si intende sia la carenza di cibo, sia la scarsa qualità della dieta da povero, ma al quale comunque non si fornisce alcuna spiegazione come se si descrivesse un paesaggio o un panorama senza la possibilità di cambiare nulla.

Certo si dice che gli americani malnutriti sono 48 milioni, cinque volte di più rispetto agli anni ’60 e quasi il doppio rispetto all’inizio del secolo, il che al netto della crisi mostra una chiara linea di tendenza. Certo si dice che la povertà è in aumento proprio in quelle periferie che erano state il sogno della classe media ed è per questo che si parla di “poveri del suv”, rende conto dei sussidi alimentari forniti dal ministero dell’Agricoltura in connessione, non si sa bene per quale motivo (o forse lo sappiamo benissimo) con organizzazioni religiose, degli aiuti in  orride scatolette delle organizzazioni di beneficenza che lucrano sulle esenzioni fiscali sulle donazioni. Ma quando si arriva al dunque emerge come una roccia di granito la voglia di non farsi domande.

Così quando prende la scena la famiglia Jefferson e i suoi guai si scopre che la carenza di cibo non è dovuta solo alla disoccupazione: ” Benché i tre adulti lavorino a tempo pieno non hanno un reddito sufficiente a sfamare la famiglia senza sussidi alimentari. Il problema di base sta nella mancanza di lavori con salari dignitosi e quindi l’aiuto per il cibo è diventato un modo di integrare i bassi salari. I Jefferson ricevono un bonus di 125 dollari al mese.”

A chiunque verrebbe in mente di chiedersi come mai  si sia arrivati a questa situazione. Quali dinamiche siano nascoste sotto la superficie e perché la mano pubblica debba intervenire con aiuti che servono soprattutto a preservare il reddito da dedicare all’auto, alle assicurazioni, alle bollette, ai telefonini e via dicendo, insomma per sostenere i consumi non essenziali, Ma a questo punto il servizio devia sul modo di mangiare in maniera più sana, nonostante le carenze. Naturalmente mangiare più sano secondo l’interpretazione talebana e asfittica tipica degli degli Usa, come si evince da questa intervista: ” Quando la dispensa comincia a svuotarsi, Christina Dreier tenta di convincere i suoi figli a saltare la merenda.  A volte mangiamo biscottini che prendiamo alla banca del cibo – ammette con un sospiro – lo so che non vanno bene, ma non posso impedire ai bambini di mangiare se hanno fame.”

Mangiare biscottini a merenda è grave, una vergogna che giustamente assorbe tutta l’attenzione dell’autrice alla quale nemmeno per sbaglio viene da chiedersi come mai i lavori con salari da fame, appunto, si siano moltiplicati in maniera così dilagante. Per non parlare di quelli con un livello retributivo molto più basso rispetto a un tempo, ma che ancora permettono di tirare avanti senza  sussidio, magari saltando qualche pasto o qualche rata. Così abbiamo il cortocircuito fra la povertà effettiva  e i consigli da rivista patinata invece di occuparsi della caduta dei salari: chi ha ritrovato lavoro dopo lo sprofondo del 2009 quando il tasso di disoccupazione arrivò al 17,5% lo ha fatto per l’80 per cento in attività part time e chi invece è riuscito ad riacchiappare il tempo pieno ha dovuto rinunciare mediamente al 57% del reddito, secondo alcuni studi ancora parziali ed è per questo che la crisi tra alti e bassi è divenuta in un certo senso endemica e più esposta a ulteriori terremoti per eccesso di credito inesigibile, nonostante la numerologia statistica e macroeconomica non sia in grado (o meglio non vuole essere in grado)  di far emergere queste realtà. Tanto che anche una rete di orientamento liberista come la Cbs ha dovuto ammettere che “La gente viene a sapere che l’economia va bene dai giornali, non per quello che capita a casa propria”.

Del resto l’arricchimento stratosferico di esigue minoranze che si appropriano di quello che viene sottratto al lavoro fanno media, le operazioni finanziarie fanno pil e le borse possono tranquillamente preparare nuove bolle. Ecco perché nel Paese più ricco del mondo aumenta il numero di persone che hanno difficoltà persino a mangiare. Ma dirlo significherebbe accusare il modello e la cultura dominante e le medesime illusioni che vengono smerciate apertamente anche da noi attraverso gli  Ichini, i Sacconi , i Renzi i sindacati gialli e la cupola bocconiana : meglio battersi eroicamente contro i biscotti.


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