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“C’è una modernità che non è relativista e passa attraverso Cristo “, da L’Occidentale

Creato il 15 aprile 2012 da Wally26

Fonte: L’Occidentale

Pubblichiamo l’introduzione al libro “Sillabario per la tarda modernità (Come se Dio fosse)“, di Sergio Belardinelli edito da Cantagalli.

Le epoche “tarde” hanno sempre qualcosa di malinconico in se stesse; sentono la propria fine come imminente e tuttavia non si rassegnano a passare. Di qui un certo “manierismo” che le contraddistingue, il replicarsi in esse di modi di pensare ancora capaci di tenere la scena e raccogliere consensi, ma pressoché privi di qualsiasi impulso vitale. La tarda modernità, nella quale ci troviamo a vivere, sembra esasperare questo senso di malinconia. Da una trentina d’anni si proclama “postmoderna”, quindi sorpassata, già morta, e nel contempo rappresenta se stessa come un “progetto incompiuto” o addirittura “irreversibile”; dei grandi sogni di cui era fatta – il progresso, la libertà, la giustizia, la scienza e il superamento di ogni superstizione – resta in effetti ben poco, se non il potere inquietante di un apparato scientifico-tecnologico sempre più emancipato dai disegni umani e la consapevolezza, non ancora abbastanza diffusa, che il molto di buono che c’era in quei sogni potrebbe essere ormai valorizzato soltanto in un altro contesto culturale.

Eppure questa modernità resiste, non si rassegna a passare. Perché?

Qualcuno potrebbe limitarsi a osservare che morire è sempre difficile, ma che lo è molto di più quando per tanto tempo ci si è sentiti immortali. E certamente ciò spiega l’ostinata resistenza di una cultura che, vuoi per motivi filosofici, vuoi per motivi scientifici, vuoi per motivi politici, aveva concepito trionfalmente se stessa come il “compimento” della storia del genere umano e che oggi, invece, si sente messa alle corde. Bisogna dire, però, che la crisi delle “magnifiche sorti e progressive”, del desiderio di ipotecare una volta per tutte il futuro, di trasformare la storia in una vicenda esclusivamente “umana”, controllata dagli uomini, grazie al potere della scienza, della tecnica o della politica; questa crisi, dicevo, è vecchia ormai di oltre cent’anni. A proclamarla in modo inequivocabile ci hanno pensato Nietzsche, la grande guerra, la cosiddetta “cultura della crisi” e, più tardi, il totalitarismo. Ci deve essere dunque un’altra risposta allo strenuo prolungarsi della nostra pur “tarda” modernità.

La risposta più ovvia potrebbe essere la sua persistente potenza tecnica. Ma io propenderei per un’altra: la nostra modernità non passa, perché la forma prevalente che essa ha assunto impedisce che se ne valorizzi un patrimonio, fatto di libertà, dignità, pluralismo, tolleranza, che, al pari di quello del cosiddetto mondo “classico”, semplicemente non può passare. A tenerla in vita è precisamente questo patrimonio, non la sua potenza, la quale, come ho già detto, è ormai priva di ogni impulso vitale.

Se dunque non vogliamo rimanere vittime delle sue tarde manifestazioni (le tecnologie della vita umana, la biopolitica, la spaventosa crisi di senso che sta attanagliando l’Europa intera, tanto per citarne alcune), dobbiamo guardare soprattutto al suo patrimonio migliore e tentare di riconciliarlo con le radici greche e giudaico-cristiane che, in gran parte, lo hanno reso possibile.

Ma questo, come ha ricordato Benedetto XVI nel suo discorso all’Università di Regensburg, “non include assolutamente l’opinione che ora si debba tornare indietro, a prima dell’Illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna”; bisogna piuttosto riconoscere “senza riserve” ciò che di “valido” è stato prodotto “nello sviluppo moderno dello spirito”.

E’ perché non siamo capaci di operare questa grande “conciliazione” che la nostra modernità ci mostra oggi soprattutto le sue patologie.

Anziché valorizzarne la pluralità, le ambivalenze, le aperture e, soprattutto, le autocomprensioni meno astiose nei confronti della tradizione, specialmente di quella religiosa, ne abbiamo fatto una sorta di monolite, dove risuonano ancora parole importanti come libertà, autodeterminazione, diritti individuali, ma che di fatto è sempre più in balia del suo potere economico e biotecnologico, diciamo pure, sempre più lontana dalla realtà. E’ tempo dunque di guardare ad altri Illuminismi, ad altre modernità.

Ciò che voglio dire, in estrema sintesi, è che non c’è soltanto la modernità antireligiosa che oggi conosciamo così bene; il nesso tra secolarizzazione e privatizzazione della morale e della religione è tutt’altro che scontato; la rottura dell’unità tra legge religiosa, civile e morale, che regnava nell’antichità, con buona pace di Weber, Heidegger o Carl Schmitt, non significa necessariamente ridurre ognuna di queste dimensioni della legge a pura “decisione”; il pluralismo, tanto per fare un altro esempio, non è detto che debba confondersi con il relativismo. Anche gli illuministi scozzesi, Hume in testa, anche Vico, Tocqueville, Rosmini o Lord Acton sono “moderni”; moderna è anche la libertà religiosa; moderni sono anche gli assetti dello Stato liberaldemocratico e la crescente importanza che, a tutti i livelli, è andata assumendo la persona umana; moderna infine è anche una ragione appassionata per la realtà e per la verità, vero antidoto ad ogni superstizione, anche a quella più pericolosa di tutte: il relativismo. Quanto alla tradizione, il supporto che essa può dare a quest’altra modernità di cui stiamo parlando non sta certo nel suo organicismo comunitario, bensì, sempre per fare qualche esempio, nella teoria platonico-aristotelica del potere limitato e del “regime misto”, nell’importanza dell’educazione come via per raggiungere l’eccellenza, nella concezione della natura e della natura umana ancorata all’idea di un telos, che possa rappresentare anche un limite all’enorme potere acquisito dall’uomo grazie alla tecnica.

Purtroppo non possiamo dire che la nostra tarda modernità sia consapevole dei vantaggi che potrebbero venirle da questi supporti. Al contrario. Li erode in continuazione, sulla base di una comprensione ideologica di se stessa, condivisa spesso sia dai secolaristi più radicali che dai clericali, ma condannata inesorabilmente al tramonto. Prendiamo come esempio il pluralismo. Di per sé, contrariamente a quanto pensano certi clericali, non credo affatto che esso rappresenti un pericolo per la stabilità della vita individuale, delle relazioni sociali, delle istituzioni politiche o di quelle religiose. Lo può diventare, certo, e di fatto sembra esserlo diventato. Ma questo accade per via di una cattiva autocomprensione secolarista, basata sulla presunta soggettività di tutti i valori e sul più radicale relativismo, non certo perché la frammentazione soggettivistica e relativistica che oggi sperimentiamo ne costituisca, teoricamente ed empiricamente, una sorta di esito necessario. Altrimenti sarebbe come dire che la libertà e la tolleranza dovrebbero farci rimpiangere il torpore degli antichi legami comunitari, dove sovente gli individui vivevano come in una prigione. Invece non è così. Tolleranza, spirito di verità, convinzioni profonde non sono concetti antitetici, ma complementari, ed è in questa complementarietà che si incontrano e si arricchiscono reciprocamente le migliori tradizioni antiche e moderne, guadagnandone entrambe in “riflessività”. Mi spiego.

Un certo pluralismo filosofico e religioso è esistito pressoché da sempre nel nostro mondo occidentale. L’epoca moderna lo ha sicuramente accentuato, costringendo sempre di più filosofia e religione a uscire dai propri gusci dogmatici. Potremmo anche esprimere lo stesso concetto, dicendo che con l’epoca moderna il confronto con l’altro diventa una sorta di necessità, al punto che la stabilità del proprio io, delle relazioni sociali, delle istituzioni religiose o delle istituzioni politiche dipende sempre di più dalla capacità di problematizzare le proprie convinzioni e la propria identità, dunque di riflettere su se stessi, di prendere un po’ le distanze da se stessi. Ma la modernità divenuta dominante, la stessa che oggi è in grave crisi, interpreta tutto questo in senso relativistico, come se tutte le convinzioni siano da mettere sullo stesso piano. E questo è un po’ l’errore che, da un lato, la consegna alla sua deriva nichilista, dall’altro rilancia il Cristianesimo come prospettiva capace di impedire questa deriva, valorizzando un pluralismo, se così posso dire, amico della realtà e della verità.

Nessun cristiano, per intenderci, si mette a discutere con un “altro”, assumendo che Gesù possa anche non essere “la via, la verità e la vita”. Ma nemmeno può farlo supponendo a priori che l’altro sia nel torto, per il semplice fatto che la pensa diversamente. Al contrario. E’ Gesù stesso che lo spinge a cercare il “buono” che sicuramente c’è anche nell’altro e a valorizzarlo. E’ Gesù stesso che, spingendo a questa operazione di comprensione, allarga e approfondisce la coscienza e la consapevolezza che i cristiani hanno di lui (e di se stessi). L’altro insomma può diventare una buona opportunità, non per rinnegare se stessi o indebolire la propria identità, ma per rafforzarla, per renderla ancora più consapevole, diciamo pure, più “riflessiva”. Questa struttura concettuale rimbalza di continuo nelle parole di cui è composto questo sillabario; potremmo dire che ne costituisce l’impalcatura, il filo conduttore nemmeno tanto nascosto, che le amalgama tutte, facendone, si spera, un vero e proprio discorso. Un sillabario per la tarda modernità, appunto.


Filed under: Filosofia, Libri, Religione, Societa' Tagged: Sergio Belardinelli

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