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C’era una volta a Roma / Otto settembre [fasi, punti e ricognizioni]

Creato il 08 settembre 2014 da Amalia Temperini @kealia81

Sono passati mesi dall’ultima volta in cui ho scritto qualcosa di concreto sul blog. Ho preso una lunga pausa delle parole poiché avevo trasformato questo spazio in luogo di incondizionato ostilità che provenivano dal mio mondo reale e che toglievano molto a quel qualcosa di costruttivo elaborato in circa due anni di attività.

Oggi, 8 settembre, in onore di una data storica che per l’Italia ha significato molto, e che ha visto l’inizio ufficiale di quella che è stata la fase Resistenza, ci provo. Ricomincio da qui ponendo alcune nuove basi.

L’azione, la strategia e l’essenzialità guideranno i miei scritti senza troppe filosofie e destreggiamenti, e chi non vorrà leggermi è ben pregato di sloggiare con la propria impudicizia fuori da queste pagine.

Sono state giornate ricche.

Da giugno a fine agosto,  ho lavorato per una mostra che mi ha permesso di osservare con occhi molto diversi aspetti di un periodo che avevo sottovaluto, poiché annoiata dalla solita storiella della “Dolce vita romana”, dai grandi film e dalle tante informazioni inutili che si lasciano intravedere in alcuni corsi universitari, dai tanti giornali e riviste, e da quelle ripetizioni nozionistiche che dovrebbero essere rivisitate attraverso gli occhi critici di distanza odierna.

Libera da contratto, finalmente, posso esprimere ciò che realmente penso, senza stare a seguire le fila ufficiali, per dare il mio reale punto di vista sulla mostra intitolata: C’era una volta a Roma. Gli anni Sessanta intorno a piazza del popolo, curata da Laura Cherubini ed Eugenio Viola.

Non la solita mostra sugli anni Sessanta, che compiange, quindi, ma uno spaccato di vite vissute tra il 1957 e il 1969 (datazione complessiva delle opere esibite).

Una fase necessaria che vede una netta rottura con l’Informale di Alberto Burri e una apertura verso quello che sarà il destino dell’Arte Povera di Germano Celant, poi.

Un decennio di scambi fruttuosi i cui protagonisti (artisti, critici, storici e galleristi) hanno gettato le basi per la messa in atto di una crisi linguistica della tradizione artistica applicata fino a quel momento.

Importante e necessaria, questa reazione, intendeva rigettare e innescare una visione sulle tragicità trascinate della seconda guerra mondiale, sulla ricostruzione e sul peso di un fare arte che sembrava senza scappatoie, concentrate sull’individualismo di pochi, nonostante l’Italia, in quel momento, si trovasse a nella condizione di  vivere le prime iniezioni di cultura statunitense, nel pieno del clima del boom economico, in innesti geopolitici collegati al blocco statunitense – sovietico della Guerra Fredda.

Sebbene questi aspetti possano essere considerati secondari, per inquadrare quel momento, bisogna avere larghe vedute e non fossilizzarsi solo in un ambito temporale circoscritto. Roma, senz’altro, stava vivendo un periodo di fioritura colossale, ma l’allarme lanciato dalle necessità degli artisti, perlopiù poveri e disastrati, era troppo vivo per manifestarsi solo nella silenziosità dei bar e caffè caotici di Piazza del Popolo.

Il primo punto di “rivoluzione” è stato l’azzeramento: la cancellazione di un tratto materico a favore di un ripensamento monocromatico che si rivelava con l’uso sperimentale di materiali più disparati (cemento, ferro, plastica, carta, velatino, calze a rete e nuovi materiali tecnologici).

Il secondo, la coscienza critica: l’adesione al partito comunista di buona parte degli artisti e l’intera comunità intellettuale viva e vivida pronta a bastonare l’inutile.

Il terzo, l’arrivo della Pop Art americana nel 1964 alla biennale di Venezia: l’identità dell’artista che predomina sull’importanza dell’opera, l’incalzare di quello che è stato poi definito “sistema dell’arte”, le enormi differenze d’impostazione tra processi culturali (e artistici) susseguitesi nel corso dei secoli in Europa (l’atto e il gesto pittorico su tutto) e l’imposizione di produzione americana figlia della serialità e della commercializzazione più becera.

Quarto: le opportunità di chi credeva nei talenti degli artisti fornendogli supporto e sussistenza.

Quinto: togliere l’etichettatura di “Pop art italiana” e dare giusta collocazione alla “Scuola di piazza del popolo”

Di certo è stata una mostra impostata in una maniera diversa, cui ho avuto molta difficoltà, e per poter capire e trasmettere le opere ho adottato una composizione e un ritmo che permettesse ai visitatori più che un incasellamento su tecniche, anni, materiali usati e singole biografie, una precisa strategia di profusione del dubbio.

L’allestimento non presentava didascalie, tutti i lavori erano diversissimi tra loro e si completavano con la forza delle idee e delle ricerche adottate. Una esposizione difficile, per un pubblico comune, poiché disabituato a guardare l’arte attraverso occhi puliti e gli strumenti giusti. Senza troppi filtri, in cui, io guida, ero sottoposta costantemente a un dibattito acceso e costruttivo tra un dialogo e confronto.

La grande capacità dei due curatori è racchiusa nella stesura dei loro testi critici presenti nel catalogo. Due posizioni differenti e indispensabili, che chiariscono quanto tra due generazioni lontane ma coeve, il cambio di percezione sui vissuti possa essere in realtà abissale. Laura Cherubini ha offerto un taglio intimista, di rapporto diretto con buona parte dei protagonisti, raccontando aneddoti e intuizioni geniali. Eugenio Viola ha impostato la sua chiave di lettura nella importanza della Comunicazione, di come in realtà, lo schermo (cinematografico e televisivo), in quegli anni abbia anticipato e prefigurato certi aspetti sulle istante attuali.

Non ho fatto ancora nomi, ma le domande che mi martellano l’esistenza fin dal primo giorno sono:

  1. Cosa ha rappresentato la morte di Pino Pascali nel 1968?
  2. Cosa ha rappresentato il suicidio di Francesco Lo Savio nel 1963?
  3. Se Fabio Mauri ha ammesso che la Francesco Lo Savio è il padre del Minimalismo e che non è stato compreso dalla critica, dovremmo ufficializzare che la matrice è italiana e non americana?
  4. Fabio Mauri con l’opera Schermo, 1957, a soli tre anni dall’arrivo della TV in Italia, prevede l’azzeramento della visione sullo spettatore. Significa che ha fatto le scarpe a molti saggisti che arrivano negli anni ’60 e hanno costruito i loro inespugnabili imperi teorici?
  5. E Umberto Bignardi con il Rotor? Possibile che venga semicitato nei libri di storia dell’arte?

Potrei continuare all’infinito, ma quanti di voi saranno arrivati alla fine?

Artisti: Giuseppe Uncini, Mimmo Rotella, Jannis Kounellis, Salvatore Scarpitta, Franco Angeli, Mario Ceroli, Francesco Lo Savio, Cy Twombly, Pino Pascali, Claudio Cintoli, Nanni Balestrini, Sergio Lombardo, Gino Marotta, Fabio Mauri, Umberto Bignardi, Renato Mambor, Giosetta Fioroni.

Gallerie significative:

La Tartaruga – Plinio De Martiis

La Salita – Gian Tomaso Liverani

L’Attico – Fabio Sargentini

Critici/Storici/curatori

Calvesi, Bucarelli, Argan, Vivaldi, De Marchis, Crispolti, Boatto, Menna, Fagiolo dell’Arco, Rubiu, Trucchi, Trini, Volpi

Per saperne di più:
www.fondazionemenegaz.it (clicca)
http://www.arteincentro.com

Video inaugurazione (musiche e video Ivan D’Antonio)

Ps. il filmato contiene anche le immagini dell’inaugurazione della personale “Alberto Di Fabio. Paesaggi della mente” 


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