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C’era una volta il prossimo

Creato il 02 dicembre 2014 da Zamax

Si direbbe che “il prossimo” stia sparendo dalla bocca dei cattolici italiani. Ma da tempo è sparito in genere dalla penna degli intellettuali cattolici, preti compresi, che scrivono sui giornali o parlano in televisione. Adesso si dice “l’altro”; e si scrive “l’Altro” con l’iniziale maiuscola, per significare quel tono sospiroso, devoto, e anche misterioso, col quale si pronuncia “l’altro” come se si trattasse di un concetto particolarmente pregnante; con quell’aria sommamente ridicola, insomma, con la quale gli sciocchi si sentono in dovere di recitare le poesie.

Eppure nel passato usando la parola “prossimo” – e scrivendola coll’iniziale minuscola, come Dio comanda – ci si capiva benissimo. In quel “prossimo” era racchiusa tutta l’umanità: sapevi che in ogni uomo c’era un “altro” te stesso, che ogni uomo era un tuo simile e un tuo fratello. Oggi, a ben vedere, la prospettiva è sottilmente capovolta. L’invito non è più a vedere nel prossimo te stesso, e ad accoglierlo come tale, ma ad accettare il prossimo – non più prossimo, ma “altro” – come intimamente diverso da te. Questa specie di razzismo umanitario sarebbe la prova della tua maturità: l’umanitarismo è fatto anche di queste contraddizioni.

La triste teologia dell’Altro ha qualcosa di autopunitivo: essa insiste sulle nostre manchevolezze, soprattutto sulla nostra sciagurata impreparazione ad accogliere l’Altro in tutta la sua Alterità. Se fossimo all’altezza di questo compito, dicono gli Altruisti, non cercheremmo d’imporgli la nostra visione delle cose. Una volta, quando incontravamo il prossimo, nel nostro ingenuo, barbaro, e alla fin fine egoistico amore per lui, ci affrettavamo ad annunciargli la buona novella senza sentirci colpevoli, anzi, aspettandoci che il povero diavolo, cioè il prossimo, ci buttasse le braccia al collo. Non ci rendevamo conto della violenza che facevamo ad un Altro che magari da millenni adorava gli Dei o i Tuoni oppure un bel nulla.

Per la cara e vecchia teologia – quella del prossimo, per intenderci – l’amore di se stesso era autentico solo se era rivolto a Dio, nel senso che solo chi cercava il Sommo Bene poteva dire di amare veramente se stesso: “Amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente”. E solo chi comunicava questo amore per il Sommo Bene al prossimo, chi lo invitava, anche solo con l’esempio, a cercare questo Sommo Bene, poteva dire di “amare il prossimo come se stesso”. In sintesi: solo chi amava Dio poteva amare se stesso e solo chi amava se stesso poteva amare il prossimo. Tutto si teneva: “In questi due comandamenti si compendia tutta la legge e i profeti.”

La lacrimosa teologia dell’Altro ha invece un nuovo comandamento, gravido di conseguenze: “ama l’Altro come Se Stesso”. Come un se stesso altro da te, diverso da te non solo nei tratti somatici, nella lingua, nei costumi, nelle condizioni materiali, ma anche nei suoi più intimi convincimenti. La catena dell’amore cristiano viene così spezzata. L’amore non discende più da una verità che ci affratella. Ed è questa mancanza di una Verità su cui tutto s’incardina che rende l’Altro un articolo così facile da smerciare. S’intende che nella sentimentale teologia dell’Altro tutto ciò non è esplicitato. Ma è adombrato. Aleggia nell’aria come una possibilità. E’ un segnale. E’ una strizzatina d’occhio al mondo. Perché in fondo “l’Altro” non è altro che “il prossimo” politicamente corretto.

[pubblicato su Giornalettismo.com]


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