Magazine Cultura
Ho molto amato James Ellroy e i suoi romanzi. Lo scoprii prendendo in prestito "I miei luoghi oscuri" alla biblioteca di Dolo quando vivevo sulla Riviera del Brenta ai bei tempi del servizio civile. Quell'autobiografia cruda, quell'indagine sulla morte della madre e sui tormenti interiori che ne derivarono, quella vita ai margini che fu all'origine della carriera di scrittore, furono illuminanti e mi spinsero a leggere molti suoi romanzi. "L.A. Confidential" (che allora, prima del film con Kim Basinger, aveva ancora il titolo "Los Angeles strettamente riservato"), "White Jazz", soprattutto "Dalia Nera" mi stregarono, e con loro quella prosa secca, asciutta, scorticata che era tutt'uno come le storie narrate nei romanzi. Posso dire che per qualche anno James Ellroy é stato il mio scrittore preferito. Grazie a Ellroy ho scoperto il noir, e con esso McBain, Manchette, Hammett, soprattutto Edward Bunker.
Poi, qualcosa si é rotto. La sua prosa si é fatta troppo secca, troppo asciutta, troppo scorticata: spezzettata e fine a sé stessa. Bunker era il mio nuovo riferimento, e lo é rimasto. La prosa di Ellroy ha via via perso il mio interesse, tra romanzi troppo lunghi e storie troppo brevi. Ho smesso di leggerlo, semplicemente.
Nel mio ultimo viaggio in Italia ho trovato al Libraccio "Caccia alle donne", seguito ideale di quel "I miei luoghi oscuri" da cui era nato tutto: l'ho preso subito sperando di tornare indietro nel tempo, a El Monte con Jean Hilliker e il suo deserto, geografico e interiore, a quel delitto e a quel bambino fotografato pochi minuti dopo la morte di sua madre. Alla passione di quella lettura.
Non é stato così. Può essere che sia cambiato io, che i miei gusti letterari si siano evoluti (o involuti), che quel linguaggio e quei luoghi oscuri che un tempo mi affascinavano ora semplicemente mi annoino. Probabilmente é colpa mia. Ma ho trovato "Caccia alle donne" pretenzioso, inutilmente provocatorio, fastidiosamente autoreferenziale. Peccato, per un attimo ci ho sperato.
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